mercoledì 31 dicembre 2008

La lingua come comportamento (modificabile)

Torniamo a fissare la nostra attenzione sul metodo e diamone qualche altro cenno. Di fatto, partiamo dalla constatazione che imparare una lingua equivale a cambiare un certo comportamento. Consideriamo la lingua un comportamento perché essa è fatta di movimenti fisici, di atteggiamenti corporei, ordinati in sequenze in parte prevedibili (si pensi alla produzione dei suoni con le modificazioni formali delle labbra e guancie, oltreché della postura della mandibola, della lingua e del sistema laringeo). La lingua, inoltre, si manifesta come comportamento perché condivide l'altra peculiarità tipica di ogni comportamento: l'importanza dei fattori psicologici (si pensi all'emotività che può rendere la voce fioca, forte, tremula, ecc., per la modificazione dei "comportamenti" delle varie parti ricordate sopra, oltreché dei movimenti polmonari e di quelli diaframmatici). Orbene, per cambiare un comportamento consolidato - come l'usare certi suoni (quelli della propria lingua madre) - occorre far leva su due punti: a) l'interessamento; b) il divertimento. Non si cambia se non si ha un qualche interesse a cambiare. Né si cambia se non si avverte il piacere di cambiare. Guardiamo ad una serie di azioni considerata più facilmente come comportamento: il fumare (anche il fumare racchiude in sé una serie di azioni, ossia non è un'azione singola: si deve tenere la sigaretta tra due dita con una pressione adeguata, poi la si deve avvicinare alla bocca, le labbra debbono assumere una certa postura e i polmoni devono compiere una inspirazione, mentre l'epiglottide deve venire aperta). Ebbene, si cambierà il comportamento di un fumatore - inducendolo a non fumare più - non solo se stimoleremo in lui l'interessamento verso tale cambiamento (spiegandogli, per esempio, che detta pratica gli è dannosa), ma se anche riusciremo a provocargli un senso di "divertimento", una sensazione di piacere nell'astenersi dalle sigarette. Infatti, quanti fumatori sono convinti dei danni del fumo, ma ciononostante continuano a fumare perché il fumo li "diverte", gli piace? Finché non si tocca anche quest'area psicologica - quella del piacere - sarà ben difficile indurre un cambiamento. Il nostro metodo vuole indurre il cambiamento di tipo comunicativo/espressivo (ossia linguistico) attraverso gli stessi sistemi che facilitano i cambiamenti comportamentali umani in genere. (Creato originariamente il 10.5.2004, h. 19.55, modificato oggi).

martedì 30 dicembre 2008

Un metodo glottodidattico serio...

Tornando ai discorsi più filosofici, tiriamo le fila a proposito del nome di questo blog! Il "mito" della Torre di Babele ci suggerisce che Uomo, Sacro e Linguaggio sono, a livello profondo, interconnessi ed interdipendenti. Fanno sistema. E' l'Uomo che parla. Ed anche Dio parla: a ciò che deve ancora creare (e lo crea proprio parlandone...) e all'Uomo stesso. Dunque, l'Uomo fa esperienza del Sacro attraverso la Parola che Dio gli rivolge per intessere con lui un rapporto. Questo è quanto l'Uomo sente e ha descritto. Peraltro, anche l'Uomo usa la Parola per relazionarsi col Divino, creando formule e rituali in cui spesso arriva a descrivere minuziosamente persino cosa vada detto ed anche come tali parole "stabilite" vadano pronunciate (a bassa voce e segretamente da parte del solo celebrante, a voce alta e in maniera udibile, a voce alta e con tutti i partecipanti, sotto forma di canto, a ripetizione, senza ripetere e avanzando linearmente...). Ecco perché un metodo glottodidattico serio - e, comunque sia, il nostro - guarda a questi tre poli e non tralascia mai di considerarli. Uomo, Sacro e Linguaggio! Se si fa crescere, se si stimola un essere umano (o meglio l'essere "umani" ovvero la natura specificamente umana che ognuno di noi ha dentro di sé) ad evolvere, inevitabilmente si compirà un'operazione parallela di acuizione della sua sensibilità interiore e della sua capacità di sperimentare la dimensione religiosa dell'esistenza. Al tempo stesso, si renderà più agevole la comunicazione interumana e, dunque, si acuirà pure (si risveglierà?...) l'attitudine - già sperimentata nella propria infanzia - a decifrare i meccanismi di una certa lingua e ad appropriarsene, tanto da riutilizzarla in modo personalizzato ed autonomo. Infatti, l'Uomo Iniziato - interiormente evoluto - non solo usa il Linguaggio, ma ha la forza di forgiarlo, di innovarlo senza stravolgerne la natura, ma piuttosto facendo come emergere ciò che era già lì da sempre, ciò che tutti i parlanti quella stessa lingua riconoscono come nuovo eppure come immediatamente comprensibile e coerente con la logica, la struttura più profonda di quella certa parlata. Si potrebbe persino supporre che più che invenzione sia solo scoperta di parole od espressioni da sempre esistite - anche se non ancora utilizzate - e da tutti conosciute (e quindi riconoscibili) - anche se ad un livello inconscio, o meglio superconscio. L'Uomo Iniziato ha la capacità di far risalire a galla le "antiche lettere" celate nell'immane flusso delle lettere ordinarie che costituiscono i nostri mille, banali discorsi d'ogni giorno. E si scopre "poeta", anche se non usa le rime. In tal senso, diventa (si scopre?...) Sacerdote che, al di sotto delle ripetitive apparenze - per quanto complesse e raffinate - dei meccanismi comunicativi, riesce a scorgere prima e meglio degli altri la natura divina di quanto viene pronunciato. Sacerdote che può dire agli altri la Parola Divina, perché è capace di avvertire il Divino sotto la scorza degli imperfetti sistemi comunicativi umani. La Torre di Babele - con tutti questi suoi richiami filosofici e religiosi - vuol proprio costituire l'icona ideale di un metodo che parta dall'Uomo e dalla sua apertura al Sacro per arrivare al Linguaggio (o che parta dallo studio di un Linguaggio per far toccare con mano la propria natura spirituale ed arrivare alla (ri-)costruzione dell'"Uomo"?...). (creato originariamente il 26.4.2004, h. 19.48, modificato oggi)

lunedì 29 dicembre 2008

Situazioni contrarie alla costanza

Tra le varie abitudini sbagliate che possono portare ad una demotivazione nello studio ce ne sono due importanti: 1) studiare durante impellenze fisiologiche (stimoli di evacuazione, ma anche fame e sete) o durante la digestione di cibo, oppure di sostanze che possano attenuare le prestazioni intellettuali (tutto ciò renderà difficoltoso e scarso l'apprendimento); 2) mancare di regolarità nella propria giornata. Riguardo a quest'ultimo punto, c'è da osservare che un lavoro che comporti frequenti cambi di programma, spostamenti imprevisti e cose del genere rende ardua la costanza e la continuità degli studi. La presenza di un insegnante/una classe che aspetta l'allievo è un incentivo a restare fedeli alla regolarità delle lezioni. Inoltre, la presenza di materiale didattico che possa essere usato in viaggio (CD o MP3 con le lezioni, per esempio) può ridurre la perdita delle conoscenze acquisite nell'attesa di ricuperare la lezione prorogata all'ultimo momento.

Favorire la costanza nello studio

Per favorire la costanza o continuità dell'allievo è importante: I) fargli percepire i risultati e II) evitare difficoltà non commisurate alla sua capacità di gestione.

I. I risultati devono avvenire: A) in modo riscontrabile dall'allievo e B) in tempi brevi. Ecco perché è importante all'inizio di ogni sezione o livello - all'inizio di ogni modulo - usare il sistema dell'"apprendimento prospettico" e cioè: 1) far sentire e poi far leggere il testo che verrà proposto alla fine di quel livello o sezione facendo scrivere all'allievo la sua traduzione - o per meglio dire il suo tentativo di traduzione - prima del testo ascoltato e poi del testo letto e 2) fargli tentare la traduzione di alcune frasi italiane che ripropongano parole e strutture di quella lezione "avanzata" nella lingua da studiare (anche qui facendogli scrivere i suoi "esperimenti"). Questi tentativi di traduzione bidirezionale devono venire conservati per poi riproporli all'allievo stesso quando si sarà raggiunta regolarmente la lezione in oggetto, cosicché egli possa raffontare personalmente i suoi progressi e ricavarne soddisfazione, incrementando la sua motivazione a continuare lo studio.

II. E' importante che l'allievo non incontri ostacoli insormontabili nel corso delle singole lezioni. Quindi, esse devono essere ben graduate. La presenza dell'insegnante facilita sicuramente l'assimilazione del testo anche non ben graduato perché egli può integrarlo a seconda delle difficoltà percepite dall'allievo. Soprattutto bisogna evitare che l'alunno cada nella ripetizione ossessiva della lezione difficile, nel tentativo di farsi entrare in testa le parole/strutture ostiche. Infatti, tale atteggiamento "violento" provoca stanchezza (specie se la si ripete con scarsi risultati). A propria volta, quest'ultima situazione può generare anche il passaggio - o meglio sarebbe dire "fuga" - ad altri testi (riviste, altri corsi,...) per darsi l'illusione di progredire ed avanzare nello studio, ma senza affrontare il testo problematico, che comunque resta necessario imparare. Questi due comportamenti pericolosi vengono da noi etichettati rispettivamente come "apprendimento ossessivo non costruttivo" e come "continuità apparente".

sabato 13 dicembre 2008

"Umanità" del Metodo Helix 4

Allora, imparare un'altra lingua può essere anche un percorso iniziatico. Non soltanto un esercizio per rallentare l'invecchiamento cerebrale o un modo per avere qualche punto in più per l'assegnazione di un posto di lavoro. Il nuovo sistema glottodidattico che è allo studio utilizza conoscenze e strategie di tipo neuropsicologico per migliorare il ricordo dei termini e della loro pronuncia ed inoltre per accelerare l'acquisizione delle funzioni e delle strutture grammatico-sintattiche della nuova lingua. Tale sistema non fa sconti sull'aspetto linguistico che viene insegnato in modo certamente integrale, ma diverso - e meno noioso - rispetto ai soli paradigmi tradizionali di declinazioni e coniugazioni. Soprattutto, per chi lo desidera, detta metodologia offre spunti di crescita e di maturazione personale cosicché lo studio della nuova lingua diventi esperienza "umana" e non solo un'esercizio di memorizzazione, in tutto simulabile da un qualsiasi "computer". E' ovvio che l'allievo riceverà le sollecitazioni in modo apparentemente casuale e sicuramente non "pesante". In altre parole, tutti i discorsi qui reperibili rappresentano il "dietro le quinte" del nostro sistema, che dev'essere obbligatoriamente conosciuto solo da chi voglia fare il docente secondo il nostro metodo, ma che non è necessario che sia sondato dall'allievo. Insomma, il nostro metodo ha uno sguardo complessivo del fenomeno Uomo, del fenomeno insegnamento/apprendimento e del fenomeno lingua. E proprio perché è frutto di una sintesi ad ampio spettro, il nostro sistema produce risultati rapidi, con minore fatica, persistenti (ovvero duraturi), e relativi ai più svariati ambiti del proprio essere. Per esempio, alcuni che l'hanno seguito a livello sperimentale hanno anche migliorato inconsapevolmente la propria capacità a memorizzare numeri e parole della propria lingua madre come pure di altre lingue che hanno voluto imparare successivamente da soli. Altri hanno riacquistato involontariamente una maggiore stabilità emotiva che ha fatto loro smettere l'assunzione di ansiolitici per dormire. Altri ancora si sono ritrovati capaci di capire gli altri (e d'altronde, cos'altro è un corso di lingue se non un imparare ad esprimersi e a comprendere un'altra cultura?...), sviluppando atteggiamenti più evoluti di compartecipazione al destino altrui. Tutto ciò senza mettere in discussione i credo personali di nessuno. Ripetiamo che si tratta solo di spunti, di stimoli, di sollecitazioni, mai di coercizione. Neppure a volerlo, neppure con l'ipnosi, si può modificare gli atteggiamenti e i convincimenti di fondo di una persona che non lo desideri. E questo, per ben noti meccanismi di autoprotezione, detti dinamiche di difesa. Anzi, spesso anche chi vuole modificare qualche lato di sé si può accorgere facilmente quanto gli sia difficile farlo. Pensiamo a chi vuole smettere di abbuffarsi ogni volta che si avvicina a del cibo e non ci riesce. Pensiamo a chi vuole smettere di fumare e non ci riesce. E pensiamo a chi si accorge di essere troppo sensibile, troppo vulnerabile, tanto da bloccarsi durante un esame eppure non riesce a cambiare tale sua "piega" mentale. Dunque, chi non vuole crescere, chi vuole solo conoscere una nuova lingua si ritroverà capace "solo" di parlare una lingua in più. E chi è pronto per o è alla ricerca di qualcosa di più probabilmente scorgerà anche degli strumenti per trovare - a modo suo - qualcos'altro. Scoverà altre tracce, tracce in più delle "antiche lettere" che gli permetteranno di ricuperare pezzi in più della propria ricchezza originaria, di avvicinarsi alla grande meta di ognuno, al "Sacro Graal" della propria realizzazione personale. In verità, quando spieghiamo questo aspetto insolito del nostro metodo alcuni danno segni di preoccupazione... (creato origginariamente il 16.3.2004, h. 18.37, modificato oggi)

mercoledì 10 dicembre 2008

Le "antiche lettere", dunque...

1. Le "antiche lettere" di cui sicuramente si serba qualche traccia in ogni lingua e/o alfabeto umano possono essere le lettere della lingua primordiale, quella parlata prima del confondimento babelico. Quella che Adamo aveva utilizzato per comunicare con Dio direttamente, quando - come recita la Genesi - Dio scendeva ogni sera nel Suo Paradiso Terrestre per intrattenersi amichevolemente con il Proprio amico Uomo. Tale lingua era quindi segno e strumento di un'unione, di un rapporto dell'Uomo con Dio e non solo dell'Uomo con i propri simili. In altri termini, c'era comunicazione e dialogo - senza perdita di identità e specificità - tra Uomo e Dio, Terra e Cielo, Inferiore e Superiore, Inconscio e Conscio. C'era un libero fluire delle energie e tra le entità. Tutto, tutti "facevano sistema", senza confusioni proteiformi. C'era armonia. Soggettivamente ed oggettivamente.

2. Ma le "antiche lettere" possono essere anche le lettere della lingua di Dio, quella con cui Egli ha creato il mondo ("Dio DISSE: "Esista la luce!". E ci fu la luce."...). E quella che - oltre che a creare - è adatta ad esprimere il pensiero di Dio e la Sua conoscenza. Che, poi, è l'unica ad essere completa e vera. Affermare che nelle lingue attuali esistano tracce di tali "antiche lettere" equivale a dire che l'Uomo è collegato, imparentato con Dio e che vi sono ancora tracce di quell'antica armonia. Certo: se vi sono solo tracce, allora significa anche che l'Uomo ha smarrito buona parte della propria "divinità", ossia della propria familiarità con Dio (e con tutto ciò che è esterno ed altro da sé stesso, ossia oggetttivo). Equivale ad affermare che nell'Uomo attuale esista un degrado di quella perfezione originaria con cui egli apparve nel gran teatro del cosmo. L'Uomo superficiale - che, cioè, vive in superficie e di superficie - ha quasi smarrito il ricordo della propria natura più autentica, più profonda. Ha smarrito il ricordo delle proprie origini di Luce. Vive ormai un'esistenza che non fu pensata per lui, che non gli appartiene. Conduce una vita che sta al di sotto del suo valore e della sua dignità. Ha perduto quasi completamente la capacità di parlare con ciò che sia effettivamente altro da sé: con Dio, con gli animali e la natura, con i suoi simili, e necessariamente anche con sé stesso, per alcuni versi. Ha solo vaghi e confusi ricordi di tutto ciò: flebili echi, nostalgie e sogni. Che, poi, sono la via maestra per ricuperare la strada per la casa "antica", per le proprie radici. Strumenti, per disseppellire la "perla preziosa" e il "tesoro nascosto" che è in lui, che è lui, che è la realtà. Sicuramente il desiderio continuo provato da ogni uomo, il sintomo dell'insoddisfazione perpetua, la "ferita" intellettuale e psicologica che nulla riesce mai a rimarginare, si apre verso l'Eterno, da sul Mistero. E' una finestra che consente all'Uomo di respirare l'aria fresca del Nuovo, del Diverso. Del Dio che non gli è più vicino, ma che gli resta pur sempre essenziale e necessario. L'Uomo è sacro. L'Uomo è il Sacro. L'Uomo è religioso per la sua stessa natura. Uomo, Sacro e Linguaggio, appunto... (creato originariamente il 16.3.2004, h. 10.52, modificato oggi)

venerdì 28 novembre 2008

Babele...

A proposito di misteri e di realtà profonde, quest'oggi parto dal nome di questo blog. E' ben noto il mito (cioè il simbolo, senza guardare alla storicità del racconto biblico che ora non è rilevante) della Torre di Babele. Su tale torre si consumò - nel senso che terminò - l'unità, la fratellanza del genere umano, che infatti smise di comprendersi. E sulla stessa torre si consumò - ma nel senso che prese forma e culminò - la tendenza egocentrica dell'Uomo. Egli si oppose a Dio cercando di toccare, di raggiungere la Sua dimora per incontrarLo e fare a cazzotti con Lui, per spodestarLo dal Suo trono celeste. Quella mitica e mistica torre diventa segno di un Uomo che cerca la realizzazione di sé attraverso l'eliminazione di chi sta sopra, dell'Autorità, del "Padre". E' il luogo, quella torre, di un Uomo ancora in fase di crescita: un Uomo che per sentirsi vivo, per affermarsi, dice continuamente: "No!", come capita ai bambini e come ricapita - in modo più elaborato - nell'adolescenza. E' un Uomo ancora piuttosto limitato che non sa convivere con l'"Altro", con i "Superiori" e ancor meno sa intessere relazioni positive, armoniche e collaborative con entità appartenenti o rappresentanti tali categorie. E' un Uomo che si vuole Dio di sé stesso, senza però esserlo effettivamente. E' un Uomo che, collaborando alla grande opera di emancipazione da ciò che è Alto e Altro, diventa curiosamente incapace di avere relazioni positive anche con i suoi simili. Essi pure diventano "estranei", incomprensibili: persone che parlano "un'altra lingua"... Quasi che ammazzare il "Padre" equivalga a distruggere simultaneamente la dimensione della "fratellanza". Quella torre è una sfida: un dito puntato contro il cielo: anzi, contro il Cielo. Un chiodo (un fallo?...) che vuole penetrare lo spazio per aprirsi un varco, per ritagliarsi a forza un proprio ambito, per trafiggere e ferire l'aria e per fissare alla parete del cielo il "quadro" del proprio Io. Mi sembra allora che quella torre è presagio simbolico anche dei chiodi che verranno usati per crocifiggere Cristo: quei chiodi che serviranno a ridare la morte a Dio, a liberarsi del "Re" venuto dal cielo. Ma ciò che viene usato per unire due punti può essere usato in una direzione e nell'altra.... Come la Torre di Babele voleva essere ponte per arrivare al cielo ed invece è servita per far scendere la punizione divina sulla terra, così i chiodi della croce che sarebbero dovuti servire ad eliminare Cristo sono stati il prerequisito perché avvenisse la Risurrezione dello stesso (non si può risorgere se prima non si è morti...). Questa meditazione sui possibili valori della Torre di Babele può servire per accorgersi che Uomo, Sacro e Linguaggio sono probabilmente interconnessi a livello profondo. O forse sono la stessa realtà in prospettive diverse. C'è un testo del 1679, stampato ad Amsterdam, che porta (quasi) lo stesso titolo di questo blog: "Turris Babel". Il suo autore, Athanasius Kircher, vi scrisse tra l'altro: "Gli alfabeti di tutte le lingue recano in sé le tracce della antiche lettere". Cosa sono, secondo voi, le "antiche lettere"?...

giovedì 27 novembre 2008

Definire i significati: testo o contesto?

Torniamo un po' al punto già espresso qualche tempo fa: il fenomeno della comunicazione umana - anche in una sola lingua, nella propria lingua materna - è qualcosa di quotidiano, ma non di banale. Di costante ed abitudinario, ma non di semplice. Prendiamo, per esempio, i seguenti malintesi: interlocutori X a interlocutori Y:

1) (mentre Y sta suonando un brano al pianoforte): "Cosa stai suonando?" Y: "Un pianoforte"...;

2) X: "Scusa, sai dov'è Piazza De Ferrari?" Y: "Certo che lo so! Ciao!"...

Esaminando questi due esempi di comunicazione verbale ci accorgiamo che - o per cattiva volontà o per idiozia/sbadataggine - Y non ha risposto come X si sarebbe aspettato. Infatti, nel caso 1) egli voleva sapere il nome del brano e non certo dello strumento (riconoscibile da chiunque, senza bisogno di spiegazioni) e nel caso 2) egli voleva ricevere le informazioni per arrivare alla piazza citata. Però, la cosa strana è che non possiamo dire che Y dimostri di non capire la lingua usata da X. E non solo perchè la usa per dare le proprie (bizzarre) risposte. Infatti se non conoscesse il senso di tutte le parole usate da X, Y non avrebbe risposto in modo coerente. Sì! Coerente! Perché, al di là di tutto, Y, alla domanda "Cosa stai suonando?", non risponde parlando di altro. Insomma, non dice: "Sono le 9", oppure: "Ho un fratello più piccolo". Y risponde indicando lo strumento che stava suonando che in effetti è un'altra interpretazione possibile e plausibile - anche se poco probabile - della domanda in esame. Ed anche alla domanda del caso 2), Y si mostra estremamente corretto nella risposta, mostrando di averne capito tutte le parti (le parole usate). Infatti anche in tale caso non risponde dicendo, per esempio: "Studio ancora all'Universita'". Ma la cosa ancor più buffa è che la risposta in 1) data da Y avrebbe smesso di essere anomala se egli, al posto di un piano, fosse stato intento a suonare un orfarione. Tale strumento antico, infatti, è poco noto e perciò la domanda fatta da X ("Cosa stai suonando?") avrebbe potuto realmente richiedere il nome del curioso strumento, più che non il nome del brano in corso di esecuzione. Come si può notare, nella situazione 1) originale e in quella variata (quella con l'orfarione...) non cambiano assolutamente le parole della domanda, e ciononostante cambia il significato della domanda, tanto da meritare una risposta diversa. Ma se parole uguali ed anzi intere combinazioni di parole uguali (ossia le frasi) possono significare cose diverse, che cos'è il senso o significato di una parola? Che cosa ce lo fornisce, di volta in volta? Si affaccia il sospetto che conoscere tutta la grammatica e il vocabolario di una lingua (anche in modo scioltissimo ed assolutamente scorrevole) non equivale ancora a sapere usare quella lingua. E si affaccia nuovamente il sospetto che non si possa definire il termine "parola". Come la si potrebbe spiegare? Come la minima unità linguistica dotata di significato? E di quale significato?... E, per esempio, "i" è una parola (articolo plurale: "i cani")? O è soltanto una desinenza priva di significato, che serve solo a modificare un nome singolare ("i" pluralizzante, come in fondo alla parola "cani")? Oppure è la desinenza che serve a fare la seconda persona singolare del tempo presente indicativo di certe classi di verbi (come in "mangi", "bevi", "dormi")? Ma, attenzione, la "i" - che potrebbe (e non potrebbe) essere parola - può avere anche il valore di desinenza verbale, ma per formare certi imperativi ("bevi" e "dormi" possono essere anche la forma di comando "bevi!", "dormi!", ma ciò non accade per la "i" di "mangi" che è e resta solo un presente). Ribadiamo che - strano ma vero - non sappiamo definire ancora il linguaggio. Usiamo ogni giorno qualcosa che non conosciamo. Siamo, cioè, avvolti in un mistero, difficilmente razionalizzabile o formalizzabile. Esso si lascia docilmente plasmare (per veicolare i nostri pensieri, fino alle sfumature piu' labili), ma non conoscere. Il che mi sembra non poco intrigante... (creato originariamente l'8.2.2004, h. 17.48, modificato oggi)

mercoledì 26 novembre 2008

Riassunto dei dilemmi relativi alla definizione di lingua

1. Dunque, la lingua non è definibile a partire dalla categoria "comunità politica o nazionale". Infatti, abbiamo già visto che in una stessa comunità politica - la Cina, ma anche la Svizzera (dove si parla ufficialmente ladino, romancio, tedesco, italiano e francese: si guardino le banconote dei loro franchi...) e persino l'Italia dove convive l'italiano con l'albanese (nell'Italia del Sud: Piana degli Albanesi), il tedesco (Tirolo), ecc. - ci possono essere persone che non riescono a comunicare fra loro. E abbiamo visto pure che possono esistere comunità politiche diverse e geograficamente lontane i cui membri parlano una stessa lingua.

2. Per definire la lingua, non si può neppure utilizzare la categoria "comunità linguistica" per motivi di logica (se definisco una comunità "linguistica" devo già saper definire il concetto di "lingua").

3. E non si può definire una lingua neppure a partire dalla categoria "mezzo o strumento che rende possibile il fenomeno in esame" (è troppo generico e si adatta a quasi tutte le realtà).

4. Scrivevo precedentemente che, forse, risulterebbe plausibile dire che la lingua è un sistema di comunicazione che utilizza le parole. Ma cos'è la parola? E se usiamo proprio le parole per definire il termine "parola", che significato ha cercare di spiegare tale termine, visto che rappresenta qualcosa di ben conosciuto? In altre parole, a che serve spiegare una cosa già nota, intuitivamente compresa e quotidianamente utilizzata? A dire il vero, potrebbe essere inutile, ma dovrebbe essere possibile definirla. Anche la sete è un'esperienza comune ed è immediatamente, intuitivamente capibile e provata dagli umani, eppure la si può definire facilmente ("sensazione fisica della mancanza di liquidi"). Ma con la "parola" abbiamo dei problemi.... E dunque anche con una definizione esatta e completa di "lingua".... Il fatto è che avviene una sorta di "cortocircuito" logico: le definizioni - di qualsiasi realtà - sono ovviamente delle operazioni linguistiche. Ora, risulta problematico "definire" - ossia "spiegare con un'operazione linguistica" - che cosa sia un'operazione linguistica.... Se, però, qualcuno ha dei suggerimenti... (creato originariamente il 5.2.2004, h. 19.25, modificato oggi).

martedì 25 novembre 2008

Definire la lingua: altre sfide...

Dunque, nel tentativo di definire una lingua si incontra già una prima difficoltà: quella di identificare il significato da attribuire al concetto di "comunità linguistica". Anche perché il parlare di comunità "linguistica" da già per scontato il fatto di aver capito e definito il concetto di "lingua", che, invece, è proprio quanto non riusciamo a fare.

1. Peraltro, non si può definire la lingua a partire dai mezzi di cui ci si serve per utilizzarla. In realtà, questo metodo - per altri concetti o realtà - va benissimo. Si pensi, per esempio, ad una stampante: essa può essere anche definita come "un insieme che si serve/ha bisogno di un dispositivo - più o meno complesso - che sia in grado di impressionare dei supporti adeguati con forme varie sotto il controllo di altri dispositivi". Questa definizione da esaurientemente il concetto di stampante ed andrà bene per ogni stampante del presente e del futuro: fosse anche a positroni ed usasse non la carta, ma delle pellicole speciali o chissacché. Orbene, tale definizione - di tipo più descrittivo - è semplicemente l'elenco delle parti essenziali che la costituiscono e del loro rapporto reciproco: si dice che - per chiamarsi "stampante" - una cosa deve avere almeno un dispositivo in grado di impressionare (non si dice se debba essere una testina a getto d'inchiostro, un raggio laser, i vecchi dispositivi ad aghi, ecc.), un supporto adeguato al sistema di impressione summenzionato (dalla carta, ai lucidi, a chissà quali materiali...) ed un sistema di controllo sotto la cui regia detta "stampante" svolga il suo lavoro (oggi un computer, ma già esistono le fotocamere digitali in grado di comandare una stampante senza passare per la mediazione di un computer e chissà cos'altro ancora potrà essere inventato come "sistema di controllo" di un oggetto che sia una "stampante"). Ogni singolo elemento è essenziale. Per esempio, se tolgo l'ultimo particolare indicato, la mia definizione potrebbe andare bene anche per le macchine per scrivere (anch'esse hanno un dispositivo per impressionare un supporto e i sistemi per introdurre e "trattare" detto supporto, che poi è la carta), ma anche per le fotocopiatrici, per i ciclostili e persino per le macchine fotografiche (il "dispositivo che impressiona" è il blocco ottico che "tratta" i fasci luminosi convergendoli e dosandoli opportunamente, mentre il "supporto adeguato" è la pellicola sensibile alla luce). Tornando al nostro argomento, ci accorgiamo che neppure con questo metodo è possibile definire la lingua. Verifichiamolo. Non si può dire che il fenomeno linguistico è ciò che utilizza l'apparato fonatorio per la trasmissione e l'orecchio per la recezione, perché allora ciò che è contenuto in un libro non dovrebbe essere definibile come lingua. Infatti, da un libro non si leva alcuna voce. In realtà, la lingua può essere trasformata e codificata in mille modi. Una comunicazione verbale può essere "tradotta" in segni grafici da stampare su carta (alfabeto), può essere "tradotta" in suoni non fisiologici come avviene nella telematica (fax e modem), può assumere la forma di "minisculture" a rilievo (alfabeto tridimensionale per ciechi, detto Braille), può diventare uno sfarfallio di luci multicolori come nelle trasmissioni telematiche di tipo ottico,.... Vero è che, alla fine, al di là dei sistemi o codici utilizzati (che per la loro varietà e imprevedibilità ci impediscono di definire la lingua attraverso di essi), una comunicazione è linguistica perché si serve di un insieme di parole. Dette o scritte o trasmesse direttamente al cervello o non so che, alla fine il ricevente si trova davanti a delle parole.

2. Allora, abbiamo trovato forse la chiave della soluzione. Potremmo definire la lingua usando il concetto di "parola". Evviva!!! Ma mi sorge un dubbio: la "parola" può essere definita da altre parole?.... E se non si fosse in grado di definire il concetto di "parola", che utilità e che significato avrebbe una definizione che vi si fondi sopra? Se "parola" è paragonabile ad un'incognita, che senso può avere una frase del tipo: "La lingua è quel sistema di comunicazione che utilizza " X " in varia forma"?... Dicendo una frase del genere, sono riuscito davvero a far capire qualcosa? (creato originariamente il 27.1.2004, h. 11.24, modificato oggi).

lunedì 24 novembre 2008

Definire una lingua è definire una comunità. Ma cos'è una comunità?

Proviamo a vedere perché è difficile "definire" esattamente e compiutamente il fenomeno "lingua". Tanto per iniziare dobbiamo ammettere che esistano altri modi in cui l'essere umano può comunicare. C'è

1) il "linguaggio" degli occhi (ammiccamenti, ecc.),

2) il "linguaggio" dei gesti (A. involontari - a. il tremore che comunica la paura, b. la postura ingobbita che indica stanchezza o depressione, ecc. - e B. intenzionali - a. l'applaudire con entrambe le mani per comunicare approvazione o gioia, b. indice e medio che fanno una "V" per indicare "Vittoria", c. il medio proteso e le altre dita raccolte a pugno per dire "Vaffanculo!", d. l'accarezzare con la mano il volto di qualcuno per comunicare affetto, e. il baciare con le labbra sulla guancia con lo stesso valore, f. il baciare con le labbra e la lingua che ha un altro significato ancora, ecc.) e

3) un linguaggio simbolico e convenzionale che si serve di realtà esterne al proprio corpo (a. una bandiera per indicare la propria tribù o popolo, la propria nazione, b. la gestione del fumo degli Indiani d'America - nuvole grosse o nuvolette e ad emissione frequente o diradata -, c. la gestione della luce come nel caso dei fari, ecc.).

Nell'ambito dei vari linguaggi, grazie ai quali gli umani si pongono in comunicazione reciproca, c'è la "lingua" che è un sistema, un codice comune che contempla l'uso di sistemi corporei (il sistema fonatorio per parlare e l'orecchio per la recezione) e di sistemi misti (come gli alfabeti e, ad esempio, la vista per decodificarli e leggerli nel caso della lingua scritta). Tale codice o sistema è comune a tutti quelli che fanno parte di una stessa comunità. Così, gli abitanti della comunità/nazione Italia parlano l'italiano, gli abitanti della comunità/nazione Inghilterra parlano l'inglese. Ma è proprio vero? Gli Australiani fanno parte della stessa comunità dei Britannici? Vivono forse vicini? Hanno uno stesso ordinamento, gli stessi governanti, lo stesso stemma o bandiera? Hanno avuto la stessa identica storia? Direi di no. Eppure parlano la stessa lingua. E' sciocco rilevare che l'inglese australiano non è esattamente come l'inglese britannico, perché - pur essendo vero che l'inglese usato in questi due stati ha qualche diversità - ciononostante non si può affermare che i due stati abbiano due lingue diverse, come succede con il francese ed il giapponese per la Francia e il Giappone o con le rispettive lingue di Spagna e Croazia, o Francia e Spagna, ecc.. Fra queste coppie di stati la diversità linguistica è vera, tanto che un Francese, per capire un Giapponese, ha bisogno di un interprete o di studiare la sua lingua. Cose che non sono necessarie per un Australiano e un Britannico (e uno Statunitense), che pure non appartengono alla stessa comunità.... Peraltro, la stessa comunità dei Cinesi abitanti in Cina non si capiscono verbalmente a distanza di qualche centinaio di chilometri, poiché le differenze tra il cinese mandarino (parlato dai letterati e nella capitale) e il cinese di Canton sono tali che il mandarino smette di essere perspicuo per un cantonese (e questo, nonostante un forte centralismo politico ed una ideologia massificante all'opera da decenni!!!). Forse che un Cantonese ed un Pechinese non hanno gli stessi governanti, lo stesso simbolo-bandiera, lo stesso ordinamento, la stessa moneta, la stessa storia, gli stessi usi, costumi e mentalità e forse che non abitano più vicini fra loro di un Inglese ed un Australiano? E allora, che significa affermare che la lingua è "un sistema o codice comune a tutti quelli che fanno parte di una data comunità"? In che senso va intesa, per esempio, tale "comunità"?.... (creato originariamente il 20.1.2004, h. 11.16, modificato oggi).

domenica 23 novembre 2008

Le conoscenze implicate nel Metodo Helix 4

La metodologia di cui si discute in questo sito parte non solo da considerazioni psicopedagogiche o neurologiche, ma anche da riflessioni di tipo linguistico. E questo, proprio perché siamo convinti assertori della necessità di essere degli insegnanti NON TANTO DI MADRELINGUA (si rilegga il post del 7 e 9 agosto 2008), QUANTO DOTATI DELLA DOPPIA COMPETENZA: "grammaticale" (nel senso più ampio di "competenza delle lingue in questione: quella dell'allievo e quella che l'allievo vuole apprendere") e "neuropsicologica". Riguardo alla competenza "grammaticale" e cioè linguistica, il nostro metodo utilizza il tesoro già accumulato da varie ricerche sul linguaggio umano e lo arricchisce con i contributi delle proprie analisi e dei propri studi. Infatti, il fenomeno della comunicazione umana - anche in una sola lingua, nella propria lingua materna - è qualcosa di quotidiano, ma non di banale. Di costante, ma non di semplice. E - strano ma vero - non sappiamo definire ancora il linguaggio. Usiamo ogni giorno qualcosa che non conosciamo. Siamo, cioè, avvolti in un mistero, che si lascia docilmente plasmare, ma non conoscere. Intrigante, vero?... (creato originariamente il 13.1.2004, h. 10.48, e modificato oggi)

giovedì 20 novembre 2008

Ancora sui blocchi emotivi (di Pierino...)

... Pierino inizierà lo studio del latino a partire NON dal latino ecclesiastico, ma - dopo averlo conosciuto meglio con un colloquio preliminare - a partire da barzellette, enigmi e giochi di parole di cui va matto. Questo sarà un latino che non gli ricorda affatto il motivo per cui è costretto ad apprenderlo, né l'ambiente di lavoro in cui dovrà esercitarlo e che gli è ostico. Naturalmente, dopo le prime tot lezioni si potrà anche stufare di battute e quindi potrà passare al latino psicologico, inerente cioè tematiche di psicologia a cui egli è pure appassionato. Quando si sarà familiarizzato con la lingua e avrà smesso di temerla o trovarla noiosa si proseguirà il corso slittando al corso in versione ecclesiastica, che gli servirà per il lavoro e che è stata la ragione prima che lo spinse ad iniziare lo studio del latino. La cosa interessante è che si procede sempre in avanti. In altre parole, passando ad una nuova ambientazione non si torna ad imparare, che so, l'uso dei casi od altre nozioni base della lingua. Ciò è possibile perché ogni lingua ha corsi specifici per linguaggi settoriali/gerghi che sono completi e, al tempo stesso, suddivisi o spezzettati in "blocchi" di tot lezioni. E percio', come dicevamo sopra, Pierino può intraprendere lo studio del latino, usando la serie "Nugae" (=barzellette, facezie, divertimenti) blocco 1 (ossia quello iniziale). Dopo tot lezioni del blocco 1 della serie "Nugae", lo prosegue usando il corso di latino, ma della serie "Psychologia" (=di tipo psicologico, appunto), blocco 2 ed arriva - dopo altre tot lezioni del blocco 2 della serie "Psychologia" - al latino della serie "Ecclesia" (=di tipo ecclesiastico), blocco 3. Come si può notare, le uniche due cose graduali, progressive o che devono seguire un'uniformità ed un ordine sono la lingua (dev'essere sempre la stessa, ovviamente) e i vari blocchi: dal primo ai successivi. Questa modularità e interscambiabilità dei vari approcci linguistici per ogni singola lingua è un'altra innovazione ed un altro punto di forza del sistema. O no?... (creato originariamente il 12.1.2004, h. 9.50, e modificato oggi)

domenica 9 novembre 2008

Scavalcare i blocchi emotivi

... E allora si può insegnare la lingua straniera a partire dal linguaggio settoriale di cose piacevoli per l'allievo, aumentando così la sua prontezza e la sua "sensibilità" al corso scelto. Si allude, per esempio, al linguaggio dello "hobby", dello "sport" preferito e via dicendo. Infatti, il metodo che sta per essere divulgato ha una peculiarità che lo rende estremamente flessibile e personalizzabile. Ecco in che senso. In media, ogni tot lezioni si arriva a padroneggiare le stesse strutture grammaticali e sintattiche di ogni lingua, al di là del linguaggio settoriale (o gergo) selezionato dall'allievo (e utilizzato nel corso). Questo fa sì che l'allievo possa passare ogni tot lezioni ad un nuovo linguaggio che gli veicola l'apprendimento della stessa lingua e quindi abbia la facoltà di cambiare "ambiente" (o "ambientazione") per il proprio studio. Per fare un esempio pratico, poniamo il caso che Pierino odi il latino, ma lo debba imparare e lo debba imparare per lavorare come traduttore di testi ufficiali della Chiesa. Peccato che - a peggiorare le cose dal punto di vista psicologico - Pierino sia un ateo convinto, ma ... deve tirare a campare e o prende questo lavoro o resta col becco asciutto. Bene, con il metodo cui ci riferiamo Pierino... (creato originariamente il 30.12.2003 h. 19; modificato oggi)

La contaminazione emotiva: bene o male?...

La controindicazione risiede nelle eventuali associazioni negative di tipo emotivo già instauratesi nell'allievo riguardo alla propria esperienza occupazionale o di gruppo d'appartenenza. Infatti, è ovvio che se "Pierino" non ne può più del suo lavoro in banca e per imparare il "latino" iniziasse proprio dal linguaggio settoriale bancario, egli trasferirebbe involontariamente il senso di peso, fastidio e rigetto che prova nella propria attività sul corso linguistico che, per la sua settorialità, gliela ricorda di continuo. Avverrebbe insomma ciò che dal metodo in questione viene denominato come "contaminazione emotiva". Essa viene utilizzata per incrementare l'attenzione e l'interesse per la lingua, ma è un'arma a doppio taglio che può funzionare anche nella direzione opposta.... E allora?... (creato originariamente il 27.12.2003 h. 8.35)

Due buoni motivi per corsi di/in gergo e linguaggi settoriali

Alcuni si possono domandare perché mai si dovrebbe ideare dei corsi linguistici a partire dai linguaggi settoriali o dai gerghi. La risposta più semplice e diretta è che, in tal modo, si attiva maggiormente l'attenzione nei confronti della lingua studiata perché essa viene sin da subito presentata come utile per esprimere cose legate al proprio mondo concreto, sia sociologico (per il gergo), che lavorativo (per il linguaggio specialistico). Inoltre, può accadere che - nell'esercizio della propria professione o durante la frequentazione del proprio gruppo - venga spontaneo ripensare a costrutti grammaticali e a parole, sentite ed insegnate nel corso delle lezioni, che vengono ritrovati o utilizzati nella/dalla professione/gruppo. In pratica, si pongono le basi perché nella mente dell'allievo avvengano spontaneamente dei ripassi - sporadici, ma numerosi e senza fatica - della materia presentata, ogni volta che egli si trovi a che fare con ciò che fa parte della sua vita e che incontra spesso anche al di fuori della lezione. Si stimola, insomma, una sorta di ripetizione per associazione di idee, basata sulle esperienze concrete del proprio ambito/mondo. In tal modo, il proprio lavoro, la propria attività e quant'altro diventa richiamo costante a ciò che si è appreso, consolidandone il rinforzo mnemonico. C'è ovviamente una controindicazione a questo metodo (già progettato e di cui è in corso di stampa il testo base o fondante). La vedremo prossimamente.... (creato originariamente il 26.12.2003 h. 16.52)

Il linguaggio settoriale

Il linguaggio "settoriale" o "specialistico" sorge con lo scopo di utilizzare in un modo quasi "matematico" la lingua, nel senso che ad ogni parola o espressione codificata corrisponde un significato solo, ben preciso. Nasce, quindi, con l'intento di abbattere al massimo la quota di ambiguità insita in ogni lingua. Per esempio, "storia" - a seconda dei contesti - può significare "registrazione o resoconto di fatti realmente accaduti" (come accade nella frase: "Spiegami la storia dell'Impero Romano"), oppure al contrario "racconto fantasioso di fatti non accaduti realmente/menzogna" (come nella frase: "Dopo qualche anno, venni a scoprire che quello che mi aveva raccontato era solo una storia"). Nel linguaggio specialistico o settoriale è più difficile incorrere in ambiguità del genere poiché spesso si creano parole nuove, apposite, per indicare sistemi, idee, processi, strumenti (od altro) che sono tipici di quel dato ambito del sapere, senza possibilità di equivoco. E così abbiamo in medicina i termini "ptosi", "atresia", "perineo", "psoas", "encefalo", ecc. che indicano o parti specifiche del corpo o sue condizioni, suoi processi e sistemi - normali o patologici. Ci può anche essere un uso "specialistico" di termini comuni, come accade con la banalissima parola "albero", che nel linguaggio settoriale della marineria indica una certa parte di certe navi. In qualche modo, anche il linguaggio settoriale può avere delle somiglianze col gergo, nel senso che può diventare un "linguaggio-barriera" che facilita la comunicazione tra persone di una stessa cerchia o ambito, mentre la rende impossibile a chi vi è estraneo. Ma la somiglianza termina qui ed è un po' superficiale. Infatti, a riguardo del linguaggio settoriale la cerchia o ambito è più di tipo intellettuale o lavorativo e solo in subordine di tipo sociologico, mentre nel "gergo" è solitamente vero l'opposto. D'altronde, chi non fa o non conosce una certa arte o mestiere non ha bisogno di usare o di conoscere, per esempio, il "bolino" e, quindi, non ha neppure il bisogno di "chiamarlo", di "indicarlo verbalmente" ovvero "nominarlo". Intendo dire che il linguaggio settoriale, di per sé, non nasce per distinguersi o "nascondere/nascondersi", bensì per le oggettive necessità tipiche di una pratica (lavori, arti o mestieri) e/o di una teoria (studi, speculazioni intellettuali, ricerca, ecc.). Tanto è vero che, invece, la maggior parte delle espressioni gergali riguardano azioni comuni, non legate a speciali o specifici mestieri/lavori, né a particolari ambiti di conoscenza o ricerca. Insomma, nel "gergo" puoi trovare la "traduzione" o "versione" di un'azione generica come il "far scorrere/ammazzare il tempo" (cfr. "cazzeggiare"), come pure di uno stato d'animo quale la "noia" o "fastidio" (cfr. "scazzo"). Anche al proposito del linguaggio settoriale ci si può lasciare sollecitare dal dubbio già presentato a proposito del gergo: perché non ideare un corso di lingue che parta non dal linguaggio generalista, ma dal linguaggio settoriale di cui si serve abitualmente l'allievo (ammesso che si trovi in una situazione del genere ed usi già un linguaggio settoriale nella propria lingua madre, legato ai suoi studi e/o alla sua occupazione)?.... (creato il 25.12.2003 h. 17.11)

Una delle prime intuizioni glottodidattiche

Il "gergo" è un linguaggio tipico e proprio di un certo gruppo piuttosto chiuso, che desidera mantenere la propria differenza e distanza rispetto a chi non ne fa parte. Il gergo, quindi, nasce per capirsi rapidamente tra persone che condividono un certo stile di vita e/o certe conoscenze ed inoltre per evitare di essere capiti da chi non faccia parte della stessa cerchia. Abbiamo, così, il gergo dei ragazzi - spesso incomprensibile agli adulti - e addirittura il gergo di alcune "bande" di ragazzi che può risultare di difficile comprensione anche alla generalità dei ragazzi stessi che, però, non appartengano alla stessa "banda". Esiste anche il gergo di sette, religioni in stato di persecuzione (i primi cristiani, per parlare di Cristo parlavano del "Pesce", per un motivo che spiegherò se qualcuno me lo chiedera'), ecc.. Il punto è: perché non ideare un corso di lingue che parta non dal linguaggio generalista, ma dal gergo di cui si serve abitualmente l'allievo (ammesso che si trovi in una situazione del genere ed usi già un gergo nella propria lingua madre)?.... (creato il 23.12.2003 h. 18.50)

Imparare un alfabeto "alieno"

Bisogna verificare se tra l'alfabeto della lingua già parlata dall'allievo (L1) e quella nuova (L2) ci sia una corrispondenza univoca. Per esempio, alla "A" italiana corrisponde il segno dell'alfa in greco e così via per tutte le altre lettere italiane: in questo caso, siamo davanti a due lingue ed alfabeti diverse che però mostrano una corrispondenza univoca. Invece, lingue come l'arabo - rispetto all'italiano - hanno un funzionamento più complesso: ad ogni lettera italiana corrispondono 4 forme grafiche, 4 lettere. Perché? Perché le prime forme di ciascuna lettera dell'alfabeto si usano solo quando esse si trovano isolate e cioè non in parole di 2 o più lettere (come quando si usano le lettere per indicizzare una lista di contenuti - a)..., b)..., c)... - o come i titoli delle sezioni dedicate alle parole che iniziano con le diverse lettere nei dizionari), le seconde forme di ogni lettera si usano quando esse si trovano all'inizio della parola, le terze forme si usano quando la lettera è all'interno della parola e le quarte forme di ogni lettera si usano quando la lettera è in fondo alla parola e la "conclude". Nell'arabo, quindi, abbiamo 4 alfabeti: uno di lettere isolate, l'altro di lettere iniziali, l'altro di mediali e l'ultimo di finali. Vediamo come imparare rapidamente il primo tipo di alfabeti "alieni": quelli a corrispondenza univoca.

giovedì 6 novembre 2008

Alfabeti "alieni"...

Ci sono lingue in cui la necessità di imparare una pronuncia diversa (regole e suoni) si accompagna ad un'ulteriore difficoltà: quella di imparare una scrittura diversa. La scrittura può tendere ad essere: 1. alfabetica (avente un "set" di caratteri, numericamente limitato ed usato in maniera combinatoria per scrivere tutte le parole di quella lingua) e contemporaneamente fonetica (ove ad ogni carattere o gruppo di caratteri corrisponde un suono) e 2. ideografica (è il cinese, ove i caratteri non costituiscono un "set" limitato che si usa per comporre le diverse parole, ma ogni carattere indica già una parola completa la cui pronuncia dev'essere nota al lettore, come pure la sua forma grafica, per riconoscerla). Di scritture ideografiche ce n'è solo una e per ora escludiamo tale tipo di scrittura. Fra quelle di tipo 1. ci sono: 1.a) lingue con scritture diverse in modo non "drammatico" dalla lingua dell'allievo o L1 (il greco per allievi italiani, p. es.) e 1.b) lingue con scritture totalmente diverse (per un europeo può essere l'arabo). In realtà, chiunque studi una L2 è bene che impari pure l'Alfabeto Fonetico Internazionale (A.F.I.) che è un sistema di scrittura artificiale, totalmente di tipo 1.. Ciò, per avere la possibilità di conoscere la pronuncia esatta di ogni parola di L2, anche di quella mai sentita prima (quasi tutti i dizionari usano mettere la trascrizione A.F.I. vicino ad ogni parola). Quindi, eccoci alla questione: come imparare la pronuncia di una lingua diversa che, in più, utilizza un alfabeto diverso?

venerdì 31 ottobre 2008

Introduzione alla pronuncia della nuova lingua

Bisogna distinguere:
A) tra lingue che usano un alfabeto sostanzialmente simile a quello dell'allievo (tipo un italiano che vuole studiare il francese, il turco, o l'esperanto) e
B) lingue che usano alfabeti radicalmente diversi da quello dell'allievo (tipo un italiano che vuole imparare il russo, il greco o l'arabo).

Esaminiamo le nostre metodiche per introdurre l'allievo alla pronuncia di una lingua di tipo A.

Un sistema è "il gioco dell'attore".
In fase preparatoria, consiste nel focalizzare i suoni diversi dalla lingua dell'allievo (L1) e, quindi, cercare parole brevi, utili e formate soprattutto da suoni già presenti in L1 che, però, contengano tali suoni nuovi. Si proporranno quindi delle serie di parole ed ogni serie conterrà sempre e solo un suono nuovo rispetto a L1. Il significato delle parole potrà essere indicato, ma non è essenziale (così potrà concentrare tutta la sua attenzione solo sull'ascolto e la riproduzione, senza fornirgli appigli a processi mentali distraenti). Prima, l'allievo dovrà sentire ogni serie - che illustra un solo suono tipico - per 3 volte e poi, la quarta volta, dovrà provare a ripetere ogni singola parola subito dopo l'ascolto (ripetendone pure l'intonazione e cadenza). Si tratta di "recitare", di far finta di essere già un francese, un turco o un esperantista, anche senza capire tutto e bene. Durante le 4 volte, non dovrà vedere la forma grafica della parola in questione (ossia come viene scritta), per non essere indotto a semplificare il suono nuovo secondo gli schemi fonetici già acquisiti. La forma grafica verrà presentata solo dopo aver raggiunto un'imitazione sufficientemente accurata del suono nuovo.

Un altro sistema è "il gioco del finto straniero".
Regola: storpiare le parole di L1 come farebbe una persona della lingua che si vuole imparare, tipo leggere l'italiano come farebbe un tedesco o un inglese (se si studia una di tali lingue, ovviamente). Anche qui si devono preparare delle serie distinte per ogni suono nuovo che si deve apprendere. Ogni serie conterrà quella lettera - o gruppo di lettere - che va pronunciato in modo "nuovo".

NOTE GENERALI:
1. Ognuno di questi giochi deve offrire le serie in questione accostate in un modo particolare e cioè per contrasto tenendo come punto di riferimento la sensibilità tipica di chi parla L1. Per esempio, studiando l'inglese, un italiano dovrà ricevere una serie che faccia provare il suono "u" presente nella parola "put", subito dopo una serie che faccia provare la "u" della combinazione inglese "oo" e, infine, quella della "w" (tutti questi suoni inglesi suonano - erroneamente - sempre simili alla nostra "u" per l'orecchio di un italiano medio, ma costui dev'essere "rieducato" da questi confronti ravvicinati a non sentirli uguali e a riprodurli diversi egli stesso). Il modo in cui accostare per contrasto le serie sarà doppio: I) prima, un'intera serie completa e omogenea e poi l'altra/le altre e II) la prima parola della prima serie, poi, subito dopo, la prima parola della serie successiva e così via per altre eventuali serie similari. Insomma, con questa seconda modalità si accostano e confrontano in modo molto ravvicinato - e, quindi, più percettibile - tutti i suoni apparentemente simili.
2. Ogni serie deve avere lo stesso numero di parole delle successive serie legate fra loro per contrasto (abbiamo riscontrato che la simmetria, in questo caso, incrementa la sensazione di confronto e, per analogia, induce una maggiore attenzione anche alle "sottili" differenze). E' inutile superare 7 parole a serie.
3. Dopo essere riuscito a riprodurre i giusti suoni, ogni parola - anche quelle italiane del gioco del finto straniero - deve essere accompagnata anche dalla trascrizione fonetica per facilitare l'autonomia dell'alunno che, così, saprà come pronunciare anche parole nuove grazie alla semplice consultazione di un dizionario (tutti i dizionari presentano la trascrizione fonetica).
4. L'introduzione alla pronuncia della nuova lingua è un'attività extracurricolare obbligatoria e va considerata propedeutica al corso vero e proprio.
5. L'ordine di presentazione di questi due giochi non è indifferente. Non indichiamo l'ordine che abbiamo appurato essere più efficace.

martedì 30 settembre 2008

Ancora sulla mira degli allievi...

Le mire dell'allievo sono spesso correlate a problemi più vasti, articolati e profondi della sua personalità. Chi, per esempio, si considera troppo vecchio per imparare perfettamente un nuovo "set" di suoni e una nuova pronuncia può darsi che, più in generale, abbia un fondo di depressione e si senta già vecchio anche in altri ambiti. Chi si definisce smemorato è possibile che abbia una bassa autostima anche in altri campi. Chi si accontenta del minimo è probabile che sia un superficiale o che abbia un fondo di depressione e/o una bassa autostima anche più in generale. Ci sono anche difetti apparentemente opposti. C'è chi crede di imparare più in fretta di quanto sia realmente possibile o chi crede di poter imparare senza impegnarsi seriamente, dal di dentro di sé, quasi che un metodo vincente possa o addirittura debba produrre conoscenza e competenze in modo "magico", autonomo e senza la propria collaborazione. Insomma, il punto nodale è ricalibrare le mire e le sottostanti convinzioni di partenza: non necessariamente "spingere", incoraggiare o esaltare. E' ovvio che un metodo glottodidattico non possa sostituirsi ad un percorso di riorganizzazione della propria personalità. Deve forzosamente limitarsi a modificare le convinzioni negative - negative anche per eccesso - inerenti al proprio ambito. Ma tale piccolo cambiamento può "accendere i motori" e ingenerare o quantomeno sostenere un cambiamento positivo più ampio. Risulta, quindi, essenziale nel Metodo Helix 4 scoprire le convinzioni negative che possono ostacolare l'efficacia del metodo stesso. Questa fase "investigativa" non presenta particolari difficoltà (anche se il Metodo Helix 4 ha una sua procedura d'indagine codificata): basta osservare i risultati delle prime lezioni e, se è il caso, analizzarne le cause, anche in modo empirico ed intuitivo.

domenica 28 settembre 2008

Ricalibrare le mire dell'allievo

L'apprendimento può essere inficiato da mire troppo basse, consapevoli e volontarie oppure inconscie. Ci sono persone che imparano male una lingua perché ritengono che sia superfluo parlarle perfettamente (basta intendersi alla bell'e meglio...). Altre sono convinte di non avere proprio la possibilità di impararle perfettamente (c'è chi si considera smemorato e più in generale gli adulti sono rassegnati all'idea di non riuscire ad apprendere un'ottima pronuncia molto vicina a quella di un madrelingua). E' ovvio che, se sono convinto che basti una conoscenza approssimativa, non mi impegnerò quel di più che, invece, mi permetterebbe di esibire una buona padronanza della lingua (e magari solo con un di più di sforzi assai meno gravoso di quel che sembri). Ed è ovvio che se mi "etichetto" smemorato, avrò un motivo valido per non impegnare la mia memoria come potrei. Mi programmo sul minimo e così otterrò effettivamente il minimo. Facciamo un esempio più usuale. Avete mai conosciuto qualcuno che inizi a convincersi di non stare in salute, di avere qualcosa? Se fate caso, il soggetto comincerà ad avere effettivamente dei disturbi... La convinzione - anche se errata, anche se inconscia - influenza sempre la "prestazione".

lunedì 25 agosto 2008

"Impari e guadagni"

Intendo per stratagemma promotivazionale un comportamento stabilito che aiuti la continuità nell'applicazione allo studio. Quello di oggi intercetta l'aspetto economico dello studente e si chiama "Impari e guadagni". A partire dalla metà del corso, il pagamento della lezione cambia regole: I. ad ogni lezione seguita nel giorno prefissato (non in altro, se l'altro è successivo a quello giusto di 3 giorni o più) l'allievo riceve un gettone o un timbro su una tessera apposita del valore di 1 euro; II. nei tempi scelti dall'allievo, l'importo maturato può essere convertito in: a) uno sconto sul costo delle lezioni o degli strumenti didattici, oppure b) un premio che l'allievo può ugualmente scegliere a sua discrezione. I premi devono essere "interessanti" per il tipo di studenti che frequentano: dalle chiavette USB o dai CD o DVD vergini ai cellulari, alle macchine fotografiche (anche usa-e-getta), ecc.. Perché introdurre questo stratagemma promotivazionale solo nella seconda metà del corso? Perché per molti è verso la fine che la stanchezza inizia a farsi sentire di più. Quindi, è opportuno un cambiamento che porti "aria fresca" nella gestione dello studio. Perché si viene penalizzati (nel senso che non si attua questo stratagemma) a partire dal terzo giorno di ritardo? Perché i tempi di studio sono (o dovrebbero essere) programmati in base al funzionamento della memoria. Secondo gli studi di Tony Buzan, la memoria ha bisogno di essere "rinfrescata" anche ogni 3 giorni circa. Se, invece, tale intervallo si dilata fino a 6 o 7 giorni si rischia di perdere l'efficacia del metodo glottodidattico seguito.

domenica 24 agosto 2008

Quanto tempo occorre per arrivare a parlare bene una lingua?

Abbandoniamo per un istante il tema della continuità nello studio e, quindi, della motivazione. La questione del tempo dedicato allo studio di una lingua straniera, credo vada suddiviso in tre questioni separate e relative al: 1) tempo di esposizione (periodo in cui passivamente si ascolta la lingua straniera che si desidera interiorizzare), al 2) tempo di produzione (in cui attivamente si creano frasi nella nuova lingua) e al 3) tempo della teoria (in cui si analizzano e si confrontano le strutture nuove con quelle della propria lingua madre). In un dialogo si ha una fisiologica alternanza dei primi due tipi e nulla o quasi del terzo (non c'è tempo per analizzare e confrontare: bisogna capire e rispondere...). E' utile dialogare per migliorare la propria conoscenza della lingua straniera? Penso poco. Nel senso che, quando si ha a che fare con un altro essere umano - pur di intendersi - si ricorre inconsciamente ad una serie di scorciatoie e stratagemmi (come: sguardi, gesti, mimica varia...) che ci consentono di continuare il rapporto, quando non si ricorda/conosce la parola/espressione/forma più giusta. Il dialogo, quindi, aiuta le capacità COMUNICATIVE ed INTERPERSONALI (senz'altro importanti...), ma non stimola PIU' DI QUEL TANTO la percezione/comprensione, per esempio, delle sottili sfumature che ogni lingua possiede. Non stimola neppure la nostra capacità di dire ESATTAMENTE quello che volevamo dire nella nuova lingua. Tipici test di questi deficit risultano essere: a) il saper chiedere le cose senza "suonare" esigente e maleducato, b) il saper raccontare le barzellette in modo che lo straniero rida di vero cuore, ecc.. In genere, il rivolgersi appropriatamente a persone non coetanee e non amiche (neutre), senza offenderle o fare gaffes (o riuscire a ferire l'altro e a fare davvero delle gaffes, perché lo volevamo fare) è una buon "test" generale. In effetti, la presenza di questi due importanti deficit non ci permetteranno di affermare, per esempio: "Padroneggio l'inglese" (e tanto meno: "Parlo l'inglese come un madrelingua").

martedì 12 agosto 2008

Gerarchie personali di valori ed interessi

Come si trasforma un ragazzo in soldato? Beh, prima di tutto, il ragazzo deve presentare già un orientamento per la vita militare. Ma, a parte ciò, quello che fanno tutte le accademie militari è: 1. ripetergli che, al presente, non è un soldato, 2. ripetergli che lo diventerà. Così, si ribadisce la meta, marcando la distanza fra ciò che egli sente di essere e ciò che deve diventare, creando così la motivazione: la carica o spinta emotiva che, come abbiamo visto, nasce appunto dal divario fra la percezione della situazione attuale ed una certa situazione futura. Ma c'è una condizione che può impedirgli di trasformarsi in un vero soldato: non avere interessi radicati, rispetto ai quali gli sia possibile percepire il suo diventare soldato come una realizzazione degli stessi. Se non ha degli interessi intimi che siano omogenei o compatibili rispetto all'essere un soldato, (ognuno può avere i suoi: soldi, prestigio sociale, agevolazioni di vario tipo, protezione degli indifesi e dei "buoni", amor di patria,...), la vita di caserma risulterà ben poco sopportabile. Ecco, allora, la terza cosa che le accademie ripetono durante gli addestramenti: "La vostra opera è utile al Paese" e, in più, si fa in modo che, per i militari, ci siano effettivamente stipendi allettanti ed una maggior considerazione (ed agevolazione...) di vario tipo da parte dello Stato. Questo variegato "mucchio" di incentivi stimolerà ogni ragazzo nel modo che gli sarà più congeniale: verranno rispecchiati, "intercettati" tutti gli interessi che può avere dentro di sé un giovane candidato alla carriera militare. Sia l'assetato di denaro che l'assetato di potere, che l'idealista di stile "protettivo" o "patriottico" percepiranno un collegamento "interessante", "significativo" fra la vita militare e la realizzazione o il soddisfacimento dei propri desideri personali. L'essere umano è una specie di "macchina del significato". Non solo perché si chiede sempre il senso delle cose, il loro perché, ma anche perché agisce solo se ha una ragione, percepita come valida. Questo esame del processo di formazione militare serve a sottolineare una parte importantissima dell'analisi motivazionale che deve precedere ogni attività umana, studio incluso. Infatti, per "costruire" motivazioni davvero efficaci sull'allievo, è essenziale rendersi conto di quegli interessi ed ideali a cui tale allievo assegna un valore determinante. E ciò, per poi inventare una presentazione del suo studio linguistico che riesca ad "agganciarsi", ad "intercettare" proprio tali interessi. Così, si provocherà un "ancoraggio", una fruttuosa "contaminazione emotiva" fra realtà già molto importanti per lui e il nuovo impegno aggiunto dell'apprendimento linguistico.

Attenzione all'idoneità delle motivazioni

All'inizio dell'articolo precedente, si è osservato che la motivazione è una spinta emotiva che, se idonea, facilita ogni attività umana. Cosa significa l'inciso "se idonea"? Il fatto è che non ogni motivazione facilita ogni attività umana. Esempio: il mio principale mi ricatta: "O lei impara l'inglese o dovrò cercare un altro che svolga il suo lavoro". Allora, mi iscrivo ad un corso di inglese. Secondo voi, quante possibilità avrò di riuscire a seguirlo con successo? E' evidente che la motivazione che nasca in un contesto percepito come umiliante raramente produrrà i risultati attesi. Anzi: senza sapermi spiegare il perché, è possibile che, durante le lezioni, io mi ritrovi ad essere più lento, distratto e confuso di quanto sia in qualsiasi altra attività, come se tentassi un autosabotaggio inconsapevole, forse per difendere o ribadire la mia dignità. No, non tutte le motivazioni sono idonee a facilitare ogni attività. Ecco, quindi, la necessità della "famosa" analisi motivazionale. Lo scopo finale di tale analisi è correggere le motivazioni dell'allievo per aiutarlo a raggiungere l'obbiettivo prefissatosi, attraverso: 1. l'eliminazione di quelle inadatte e 2. la sostituzione con altre che siano più idonee allo scopo (ed accuratamente personalizzate, affinché l'allievo le senta come proprie).

Cos'è la motivazione? Alcune sue caratteristiche

Anzitutto: cos'è la motivazione in senso psicologico? E' una spinta o carica emotiva che, se idonea, facilita ogni attività umana (e che, quindi, va studiata quando si parla di apprendimento, visto che ogni apprendimento corre il rischio di risultare faticoso). La motivazione nasce sempre dalla distanza fra ciò che si crede di essere e ciò che si vuole diventare. Attenzione: non fra ciò che si è oggettivamente, bensì fra ciò che si crede di essere e ciò che si vuole diventare: l'oggettività c'entra piuttosto poco nelle dinamiche psicologiche... Se Mario ha 10 milioni di euro e ciò gli basta soggettivamente per sentirsi già ricco, non cercherà di arricchirsi ulteriormente in tutti i modi (fra l'altro, consideriamo che parecchi si sentirebbero già soddisfatti con molto meno...). Ma se Giovanni, che ha 25 milioni di euro, si è fissato di doverne avere 50, allora si sentirà ansiosamente in perdita e ancora insoddisfatto. Egli cercherà di arricchirsi in tutti i modi fino alla cifra - per lui "magica" e ossessionante - di 50 milioni di euro. Quindi, è più importante ciò che si crede di essere o ciò di cui si crede di aver bisogno, di ciò che si è o si ha effettivamente. L'energia psichica della motivazione si trae da quel che si percepisce, reale o immaginario che sia. Facciamo un altro esempio. Se alcune mie amiche - per farmi un brutto scherzo - iniziano a trattarmi con indifferenza e riescono a convincermi di non essere bravo nella relazione con l'altro sesso, cercherò in tutti i modi di acquisire tale capacità (che magari avevo già...), perdendo inutilmente un sacco di energie e, forse, di denaro. Avevo bisogno di tutti quei libri sulla psicologia femminile, di quella consulenza dallo psicologo, di quel corso di seduzione? No. Allora, perché l'ho fatto? Perché pensavo, credevo, ero convinto io di averne bisogno. La pubblicità funziona utilizzando proprio queste dinamiche: viene insinuato il bisogno artificiale di qualcosa di cui si aveva sempre fatto a meno tranquillamente. In altre parole, si spinge il consumatore a credere di aver bisogno di qualcosa, ben sapendo che le azioni si sviluppano sempre dalle convinzioni.

Importanza della motivazione per il rendimento e la continuità

Oltre ad un insegnante provvisto della conoscenza riflessa della nuova lingua, l'allievo adulto ha bisogno di un sistema che metta a fuoco la sua situazione motivazionale. Cosa significa? Significa che bisogna esaminare attentamente se nell'alunno si annidino - anche a sua insaputa - dei blocchi od ostacoli all'apprendimento, dovuti ad un'incapacità a "caricarsi" e a motivare il proprio impegno. Spesso si rende meno di quello che si potrebbe a causa delle errate o insufficienti motivazioni e ciò si ripercuote negativamente su tutto lo studio, peggiorando ulteriormente il rendimento già difettoso. Si immagini di iniziare pieni di entusiasmo lo studio dell'inglese. Dopo un mese, però, si nota che si fanno pochi progressi apprezzabili (si continua, per esempio, a non capire nulla di una e-mail, di un articolo di giornale e/o di una canzone del nostro autore straniero preferito). Si inizia, così, a percepire il corso di inglese come qualcosa di teorico, di staccato dal concreto, di poco efficace. Cresce solo la percezione della "routine" e della noia ("Ogni martedì e giovedì DEVO/MI TOCCA andare al corso"...) o quantomeno dell'impegno e della fatica (senz'altro presenti e necessari in ogni studio serio), senza che aumenti contemporaneamente l'interessamento e il piacere per la materia e il corso. Con una metafora sentimentale, potremmo dire che il "fidanzamento" appassionato con la materia si è concluso e si è scaduti nella "crisi del settimo anno"... Invece, è importante preoccuparsi di accrescere interessamento e piacere, perché ciò diminuisce la percezione della fatica. In altri termini, la loro intensificazione è fondamentale, perché funge da "anestetico" nei confronti degli aspetti "logoranti" dell'apprendimento, sempre presenti e con cui, realisticamente, bisogna fare i conti. Come si può intuire, l'aver riscontrato pochi risultati dopo un certo lasso di tempo demotiva ulteriormente l'alunno e, perciò, peggiora sempre più la sua capacità di apprendimento. Ora, l'inizio di questa "caduta libera" risiede anche nel mancato superamento degli ostacoli psicologici presenti nell'alunno. E tra questi ostacoli, sono da considerare le motivazioni insufficienti o erronee, che non gli hanno assicurato né tutto il rendimento possibile, né la continuità. Ecco perché, all'inizio di ogni studio, ci sembra essenziale esaminare il "quadro" motivazionale dell'alunno. Ma questo cosa significa in concreto?...

sabato 9 agosto 2008

Ancora sulla conoscenza riflessa

Per insegnare una lingua, occorre conoscere la lingua in oggetto: e' naturale. Ma non e' banale precisare in che modo essa vada conosciuta, visto l'aneddoto del messaggio precedente.... Si parlava anche di una conoscenza "riflessa" e distaccata. Con cio', si intendeva dire che il vero insegnante deve essere consapevole dei "meccanismi" e delle "strutture" all'opera nella lingua che vuole insegnare. La semplice conoscenza "istintiva" ed "automatizzata" va bene solo per gli umani in eta' prepuberale, ai quali basta la semplice esposizione ad un dato idioma per apprenderlo in modo "naturale" (modificato dall'originale del 18.12.2003, h. 16.39)

giovedì 7 agosto 2008

Necessità della conoscenza riflessa delle lingue

... ma che la conosca in modo "riflesso", meno coinvolto e quindi piu' distaccato. Perche'? Lo faccio capire con un aneddoto. Un mio amico si iscrisse ad un corso di svedese, che (ovviamente...) sottolineava il fatto di avere insegnanti madrelingua. Il mio amico ci andava regolarmente al corso, anche perche' l'insegnante era una svedese e pure ... "buona". Questa sua bellezza, pero', era anzitutto un elemento di distrazione e non di facilitazione nei confronti dei processi di apprendimento. Ma l'altro aspetto negativo - ben piu' importante e meno discutibile - era che la gentile signorina sapeva perfettamente la propria lingua, ma 1) non sapeva l'italiano, 2) non si rendeva conto di come trasformava la propria lingua. Intendo dire che lei - come tutti quelli che conoscono perfettamente la propria lingua tanto da averla "automatizzata" - non sapeva spiegare (peraltro ignorava l'italiano...) perche' una stessa parola della sua lingua venisse ogni tanto modificata (per dare l'idea, faccio due esempi col tedesco, simile allo svedese (e a me più congeniale...): "Auto" puo' diventare "Autos", "Mann" "Maenner", ma anche "Maennern", ecc.) (creato originariamente il 17.12.2003, h. 16.09; modificato e ripubblicato oggi).

mercoledì 6 agosto 2008

Quale insegnante per quale allievo?....

Per insegnare una lingua bisogna sicuramente conoscere la lingua in oggetto. Ma - attenzione! - anche un ragazzo di 16 anni conosce la propria lingua ad un livello sufficientemente complesso e, al tempo stesso, "automatizzato". Non per questo, pero', potrebbe insegnare efficientemente (e cioe' rapidamente) ed efficacemente (e cioe' in modo da essere capita bene e ricordata a lungo) la propria lingua ad un adulto che la volesse apprendere. Invece, la potrebbe insegnare benissimo ad un bambino (ed anche - o soprattutto - senza incontri o lezioni a cio' predisposti), come d'altronde fanno anche i genitori con i propri figli in modo spontaneo, sia che abbiano una preparazione linguistica sia che non siano insegnanti di professione. Questo ci fa capire gia' una prima, grande cosa, in contrasto a ciò che verrebbe da dedurre di primo acchito (e a ciò che pensano molti allievi): buona parte dei frutti di un insegnamento linguistico risiede non solo nell'insegnante, ma anche nell'allievo stesso. In particolare, l'allievo - ogni allievo della specie umana - mostra nei confronti del linguaggio una capacita' di apprendimento naturale piu' marcata fino all'inizio della puberta'. Dopo poco, tale predisposizione o sensibilita' linguistica cala rapidamente. E cosi', lo stesso bambino che aveva imparato perfettamente e senza sforzo la propria lingua madre - magari difficilissima (ma secondo chi?...) come il cinese -, intorno ai 15 anni diventa incapace di imparare un'altra lingua in modo altrettanto naturale e per semplice contatto ed esposizione. Intorno ai 15 anni (o anche prima) e' piu' opportuno affidarsi a qualcuno che non solo sappia usare bene la lingua da apprendere (magari perche' madrelingua), ma che .... (creato il 16.12.2003, h. 10.23; modificato e ripubblicato oggi)

martedì 5 agosto 2008

Il dilemma superato

Per rendere meno pesante la ... maledizione della torre di Babele, bisogna verificare la soluzione al dilemma del latino e di Pierino, che vuole imparare il latino: chi dei due va conosciuto meglio? Se si risponde - come in antico -: "Il latino!" si apparterra' alla categoria dei "grammatici". Se si risponde - come si fa piu' recentemente -: "Pierino!" si apparterra' ai "neuropsicologi". La realta' e' che e' sbagliato porre il dilemma ed obbligarsi ad un'alternativa. La risposta corretta al dilemma e' infrangere il dilemma stesso. Quindi, non "aut/aut", ma "et/et": bisogna essere sia "grammatici" che "neuropsicologi". Pare esagerato?... (originario del 15.12 .2003, h. 10.06; modificato il 9/11/2009)

lunedì 4 agosto 2008

Uno dei dilemmi di chi insegna

Mi viene in mente un vecchio dilemma, a proposito delle lingue e del loro apprendimento: "Per insegnare bene il latino a Pierino, devo conoscere meglio il latino o Pierino?" Molti di noi hanno un corso (o anche piu') di qualche lingua estera (tipicamente di inglese). Da qualche parte (dispensa, garage, cantina?...), impolverato. E' probabile che, nonostante quel corso fosse ben reclamizzato come "modernissimo", "scientifico", "naturale e senza sforzo", "capace di insegnarvi a pensare direttamente nella lingua straniera", ecc., nessuno di noi riesca tuttora a capire un'acca di quello che viene detto nella nostra canzone preferita, se e' in quella lingua, o di quello che sentiamo dire da due tizi madrelingua. E cio', anche se il corso fosse stato letto integralmente. Ma spesso, a dispetto di tutta la "scientifica gradualita'" con cui esso sarebbe stato composto, si deve ammettere che non si è neppure terminata la lettura del detto corso in tutta la sua interezza. Perche'? Forse perche' esso non offriva un corretto equilibrio fra l'attenzione che si deve riservare al ... latino (e a qualsiasi altra lingua) e l'attenzione dovuta a ... Pierino (e cioe' a chiunque voglia conoscere altri idiomi: a me, a te, ...). Per oggi, basta. Ci rileggeremo prossimamente.... Nel frattempo, perche' non scrivere una vostra opinione sulle vostre esperienze (piu' o meno frustranti) a contatto con una lingua straniera? Penso a chi, per entrare nel mondo del lavoro, deve sostenere un colloquio in altra lingua o anche a quegli studenti universitari che scelgono indirizzi non linguistici e che si trovano, pero', a dover superare un esame di tale genere per poter raggiungere l'agognata meta della laurea. A presto! (originario del 14.12 .2003, h. 18.08)