venerdì 28 novembre 2008

Babele...

A proposito di misteri e di realtà profonde, quest'oggi parto dal nome di questo blog. E' ben noto il mito (cioè il simbolo, senza guardare alla storicità del racconto biblico che ora non è rilevante) della Torre di Babele. Su tale torre si consumò - nel senso che terminò - l'unità, la fratellanza del genere umano, che infatti smise di comprendersi. E sulla stessa torre si consumò - ma nel senso che prese forma e culminò - la tendenza egocentrica dell'Uomo. Egli si oppose a Dio cercando di toccare, di raggiungere la Sua dimora per incontrarLo e fare a cazzotti con Lui, per spodestarLo dal Suo trono celeste. Quella mitica e mistica torre diventa segno di un Uomo che cerca la realizzazione di sé attraverso l'eliminazione di chi sta sopra, dell'Autorità, del "Padre". E' il luogo, quella torre, di un Uomo ancora in fase di crescita: un Uomo che per sentirsi vivo, per affermarsi, dice continuamente: "No!", come capita ai bambini e come ricapita - in modo più elaborato - nell'adolescenza. E' un Uomo ancora piuttosto limitato che non sa convivere con l'"Altro", con i "Superiori" e ancor meno sa intessere relazioni positive, armoniche e collaborative con entità appartenenti o rappresentanti tali categorie. E' un Uomo che si vuole Dio di sé stesso, senza però esserlo effettivamente. E' un Uomo che, collaborando alla grande opera di emancipazione da ciò che è Alto e Altro, diventa curiosamente incapace di avere relazioni positive anche con i suoi simili. Essi pure diventano "estranei", incomprensibili: persone che parlano "un'altra lingua"... Quasi che ammazzare il "Padre" equivalga a distruggere simultaneamente la dimensione della "fratellanza". Quella torre è una sfida: un dito puntato contro il cielo: anzi, contro il Cielo. Un chiodo (un fallo?...) che vuole penetrare lo spazio per aprirsi un varco, per ritagliarsi a forza un proprio ambito, per trafiggere e ferire l'aria e per fissare alla parete del cielo il "quadro" del proprio Io. Mi sembra allora che quella torre è presagio simbolico anche dei chiodi che verranno usati per crocifiggere Cristo: quei chiodi che serviranno a ridare la morte a Dio, a liberarsi del "Re" venuto dal cielo. Ma ciò che viene usato per unire due punti può essere usato in una direzione e nell'altra.... Come la Torre di Babele voleva essere ponte per arrivare al cielo ed invece è servita per far scendere la punizione divina sulla terra, così i chiodi della croce che sarebbero dovuti servire ad eliminare Cristo sono stati il prerequisito perché avvenisse la Risurrezione dello stesso (non si può risorgere se prima non si è morti...). Questa meditazione sui possibili valori della Torre di Babele può servire per accorgersi che Uomo, Sacro e Linguaggio sono probabilmente interconnessi a livello profondo. O forse sono la stessa realtà in prospettive diverse. C'è un testo del 1679, stampato ad Amsterdam, che porta (quasi) lo stesso titolo di questo blog: "Turris Babel". Il suo autore, Athanasius Kircher, vi scrisse tra l'altro: "Gli alfabeti di tutte le lingue recano in sé le tracce della antiche lettere". Cosa sono, secondo voi, le "antiche lettere"?...

giovedì 27 novembre 2008

Definire i significati: testo o contesto?

Torniamo un po' al punto già espresso qualche tempo fa: il fenomeno della comunicazione umana - anche in una sola lingua, nella propria lingua materna - è qualcosa di quotidiano, ma non di banale. Di costante ed abitudinario, ma non di semplice. Prendiamo, per esempio, i seguenti malintesi: interlocutori X a interlocutori Y:

1) (mentre Y sta suonando un brano al pianoforte): "Cosa stai suonando?" Y: "Un pianoforte"...;

2) X: "Scusa, sai dov'è Piazza De Ferrari?" Y: "Certo che lo so! Ciao!"...

Esaminando questi due esempi di comunicazione verbale ci accorgiamo che - o per cattiva volontà o per idiozia/sbadataggine - Y non ha risposto come X si sarebbe aspettato. Infatti, nel caso 1) egli voleva sapere il nome del brano e non certo dello strumento (riconoscibile da chiunque, senza bisogno di spiegazioni) e nel caso 2) egli voleva ricevere le informazioni per arrivare alla piazza citata. Però, la cosa strana è che non possiamo dire che Y dimostri di non capire la lingua usata da X. E non solo perchè la usa per dare le proprie (bizzarre) risposte. Infatti se non conoscesse il senso di tutte le parole usate da X, Y non avrebbe risposto in modo coerente. Sì! Coerente! Perché, al di là di tutto, Y, alla domanda "Cosa stai suonando?", non risponde parlando di altro. Insomma, non dice: "Sono le 9", oppure: "Ho un fratello più piccolo". Y risponde indicando lo strumento che stava suonando che in effetti è un'altra interpretazione possibile e plausibile - anche se poco probabile - della domanda in esame. Ed anche alla domanda del caso 2), Y si mostra estremamente corretto nella risposta, mostrando di averne capito tutte le parti (le parole usate). Infatti anche in tale caso non risponde dicendo, per esempio: "Studio ancora all'Universita'". Ma la cosa ancor più buffa è che la risposta in 1) data da Y avrebbe smesso di essere anomala se egli, al posto di un piano, fosse stato intento a suonare un orfarione. Tale strumento antico, infatti, è poco noto e perciò la domanda fatta da X ("Cosa stai suonando?") avrebbe potuto realmente richiedere il nome del curioso strumento, più che non il nome del brano in corso di esecuzione. Come si può notare, nella situazione 1) originale e in quella variata (quella con l'orfarione...) non cambiano assolutamente le parole della domanda, e ciononostante cambia il significato della domanda, tanto da meritare una risposta diversa. Ma se parole uguali ed anzi intere combinazioni di parole uguali (ossia le frasi) possono significare cose diverse, che cos'è il senso o significato di una parola? Che cosa ce lo fornisce, di volta in volta? Si affaccia il sospetto che conoscere tutta la grammatica e il vocabolario di una lingua (anche in modo scioltissimo ed assolutamente scorrevole) non equivale ancora a sapere usare quella lingua. E si affaccia nuovamente il sospetto che non si possa definire il termine "parola". Come la si potrebbe spiegare? Come la minima unità linguistica dotata di significato? E di quale significato?... E, per esempio, "i" è una parola (articolo plurale: "i cani")? O è soltanto una desinenza priva di significato, che serve solo a modificare un nome singolare ("i" pluralizzante, come in fondo alla parola "cani")? Oppure è la desinenza che serve a fare la seconda persona singolare del tempo presente indicativo di certe classi di verbi (come in "mangi", "bevi", "dormi")? Ma, attenzione, la "i" - che potrebbe (e non potrebbe) essere parola - può avere anche il valore di desinenza verbale, ma per formare certi imperativi ("bevi" e "dormi" possono essere anche la forma di comando "bevi!", "dormi!", ma ciò non accade per la "i" di "mangi" che è e resta solo un presente). Ribadiamo che - strano ma vero - non sappiamo definire ancora il linguaggio. Usiamo ogni giorno qualcosa che non conosciamo. Siamo, cioè, avvolti in un mistero, difficilmente razionalizzabile o formalizzabile. Esso si lascia docilmente plasmare (per veicolare i nostri pensieri, fino alle sfumature piu' labili), ma non conoscere. Il che mi sembra non poco intrigante... (creato originariamente l'8.2.2004, h. 17.48, modificato oggi)

mercoledì 26 novembre 2008

Riassunto dei dilemmi relativi alla definizione di lingua

1. Dunque, la lingua non è definibile a partire dalla categoria "comunità politica o nazionale". Infatti, abbiamo già visto che in una stessa comunità politica - la Cina, ma anche la Svizzera (dove si parla ufficialmente ladino, romancio, tedesco, italiano e francese: si guardino le banconote dei loro franchi...) e persino l'Italia dove convive l'italiano con l'albanese (nell'Italia del Sud: Piana degli Albanesi), il tedesco (Tirolo), ecc. - ci possono essere persone che non riescono a comunicare fra loro. E abbiamo visto pure che possono esistere comunità politiche diverse e geograficamente lontane i cui membri parlano una stessa lingua.

2. Per definire la lingua, non si può neppure utilizzare la categoria "comunità linguistica" per motivi di logica (se definisco una comunità "linguistica" devo già saper definire il concetto di "lingua").

3. E non si può definire una lingua neppure a partire dalla categoria "mezzo o strumento che rende possibile il fenomeno in esame" (è troppo generico e si adatta a quasi tutte le realtà).

4. Scrivevo precedentemente che, forse, risulterebbe plausibile dire che la lingua è un sistema di comunicazione che utilizza le parole. Ma cos'è la parola? E se usiamo proprio le parole per definire il termine "parola", che significato ha cercare di spiegare tale termine, visto che rappresenta qualcosa di ben conosciuto? In altre parole, a che serve spiegare una cosa già nota, intuitivamente compresa e quotidianamente utilizzata? A dire il vero, potrebbe essere inutile, ma dovrebbe essere possibile definirla. Anche la sete è un'esperienza comune ed è immediatamente, intuitivamente capibile e provata dagli umani, eppure la si può definire facilmente ("sensazione fisica della mancanza di liquidi"). Ma con la "parola" abbiamo dei problemi.... E dunque anche con una definizione esatta e completa di "lingua".... Il fatto è che avviene una sorta di "cortocircuito" logico: le definizioni - di qualsiasi realtà - sono ovviamente delle operazioni linguistiche. Ora, risulta problematico "definire" - ossia "spiegare con un'operazione linguistica" - che cosa sia un'operazione linguistica.... Se, però, qualcuno ha dei suggerimenti... (creato originariamente il 5.2.2004, h. 19.25, modificato oggi).

martedì 25 novembre 2008

Definire la lingua: altre sfide...

Dunque, nel tentativo di definire una lingua si incontra già una prima difficoltà: quella di identificare il significato da attribuire al concetto di "comunità linguistica". Anche perché il parlare di comunità "linguistica" da già per scontato il fatto di aver capito e definito il concetto di "lingua", che, invece, è proprio quanto non riusciamo a fare.

1. Peraltro, non si può definire la lingua a partire dai mezzi di cui ci si serve per utilizzarla. In realtà, questo metodo - per altri concetti o realtà - va benissimo. Si pensi, per esempio, ad una stampante: essa può essere anche definita come "un insieme che si serve/ha bisogno di un dispositivo - più o meno complesso - che sia in grado di impressionare dei supporti adeguati con forme varie sotto il controllo di altri dispositivi". Questa definizione da esaurientemente il concetto di stampante ed andrà bene per ogni stampante del presente e del futuro: fosse anche a positroni ed usasse non la carta, ma delle pellicole speciali o chissacché. Orbene, tale definizione - di tipo più descrittivo - è semplicemente l'elenco delle parti essenziali che la costituiscono e del loro rapporto reciproco: si dice che - per chiamarsi "stampante" - una cosa deve avere almeno un dispositivo in grado di impressionare (non si dice se debba essere una testina a getto d'inchiostro, un raggio laser, i vecchi dispositivi ad aghi, ecc.), un supporto adeguato al sistema di impressione summenzionato (dalla carta, ai lucidi, a chissà quali materiali...) ed un sistema di controllo sotto la cui regia detta "stampante" svolga il suo lavoro (oggi un computer, ma già esistono le fotocamere digitali in grado di comandare una stampante senza passare per la mediazione di un computer e chissà cos'altro ancora potrà essere inventato come "sistema di controllo" di un oggetto che sia una "stampante"). Ogni singolo elemento è essenziale. Per esempio, se tolgo l'ultimo particolare indicato, la mia definizione potrebbe andare bene anche per le macchine per scrivere (anch'esse hanno un dispositivo per impressionare un supporto e i sistemi per introdurre e "trattare" detto supporto, che poi è la carta), ma anche per le fotocopiatrici, per i ciclostili e persino per le macchine fotografiche (il "dispositivo che impressiona" è il blocco ottico che "tratta" i fasci luminosi convergendoli e dosandoli opportunamente, mentre il "supporto adeguato" è la pellicola sensibile alla luce). Tornando al nostro argomento, ci accorgiamo che neppure con questo metodo è possibile definire la lingua. Verifichiamolo. Non si può dire che il fenomeno linguistico è ciò che utilizza l'apparato fonatorio per la trasmissione e l'orecchio per la recezione, perché allora ciò che è contenuto in un libro non dovrebbe essere definibile come lingua. Infatti, da un libro non si leva alcuna voce. In realtà, la lingua può essere trasformata e codificata in mille modi. Una comunicazione verbale può essere "tradotta" in segni grafici da stampare su carta (alfabeto), può essere "tradotta" in suoni non fisiologici come avviene nella telematica (fax e modem), può assumere la forma di "minisculture" a rilievo (alfabeto tridimensionale per ciechi, detto Braille), può diventare uno sfarfallio di luci multicolori come nelle trasmissioni telematiche di tipo ottico,.... Vero è che, alla fine, al di là dei sistemi o codici utilizzati (che per la loro varietà e imprevedibilità ci impediscono di definire la lingua attraverso di essi), una comunicazione è linguistica perché si serve di un insieme di parole. Dette o scritte o trasmesse direttamente al cervello o non so che, alla fine il ricevente si trova davanti a delle parole.

2. Allora, abbiamo trovato forse la chiave della soluzione. Potremmo definire la lingua usando il concetto di "parola". Evviva!!! Ma mi sorge un dubbio: la "parola" può essere definita da altre parole?.... E se non si fosse in grado di definire il concetto di "parola", che utilità e che significato avrebbe una definizione che vi si fondi sopra? Se "parola" è paragonabile ad un'incognita, che senso può avere una frase del tipo: "La lingua è quel sistema di comunicazione che utilizza " X " in varia forma"?... Dicendo una frase del genere, sono riuscito davvero a far capire qualcosa? (creato originariamente il 27.1.2004, h. 11.24, modificato oggi).

lunedì 24 novembre 2008

Definire una lingua è definire una comunità. Ma cos'è una comunità?

Proviamo a vedere perché è difficile "definire" esattamente e compiutamente il fenomeno "lingua". Tanto per iniziare dobbiamo ammettere che esistano altri modi in cui l'essere umano può comunicare. C'è

1) il "linguaggio" degli occhi (ammiccamenti, ecc.),

2) il "linguaggio" dei gesti (A. involontari - a. il tremore che comunica la paura, b. la postura ingobbita che indica stanchezza o depressione, ecc. - e B. intenzionali - a. l'applaudire con entrambe le mani per comunicare approvazione o gioia, b. indice e medio che fanno una "V" per indicare "Vittoria", c. il medio proteso e le altre dita raccolte a pugno per dire "Vaffanculo!", d. l'accarezzare con la mano il volto di qualcuno per comunicare affetto, e. il baciare con le labbra sulla guancia con lo stesso valore, f. il baciare con le labbra e la lingua che ha un altro significato ancora, ecc.) e

3) un linguaggio simbolico e convenzionale che si serve di realtà esterne al proprio corpo (a. una bandiera per indicare la propria tribù o popolo, la propria nazione, b. la gestione del fumo degli Indiani d'America - nuvole grosse o nuvolette e ad emissione frequente o diradata -, c. la gestione della luce come nel caso dei fari, ecc.).

Nell'ambito dei vari linguaggi, grazie ai quali gli umani si pongono in comunicazione reciproca, c'è la "lingua" che è un sistema, un codice comune che contempla l'uso di sistemi corporei (il sistema fonatorio per parlare e l'orecchio per la recezione) e di sistemi misti (come gli alfabeti e, ad esempio, la vista per decodificarli e leggerli nel caso della lingua scritta). Tale codice o sistema è comune a tutti quelli che fanno parte di una stessa comunità. Così, gli abitanti della comunità/nazione Italia parlano l'italiano, gli abitanti della comunità/nazione Inghilterra parlano l'inglese. Ma è proprio vero? Gli Australiani fanno parte della stessa comunità dei Britannici? Vivono forse vicini? Hanno uno stesso ordinamento, gli stessi governanti, lo stesso stemma o bandiera? Hanno avuto la stessa identica storia? Direi di no. Eppure parlano la stessa lingua. E' sciocco rilevare che l'inglese australiano non è esattamente come l'inglese britannico, perché - pur essendo vero che l'inglese usato in questi due stati ha qualche diversità - ciononostante non si può affermare che i due stati abbiano due lingue diverse, come succede con il francese ed il giapponese per la Francia e il Giappone o con le rispettive lingue di Spagna e Croazia, o Francia e Spagna, ecc.. Fra queste coppie di stati la diversità linguistica è vera, tanto che un Francese, per capire un Giapponese, ha bisogno di un interprete o di studiare la sua lingua. Cose che non sono necessarie per un Australiano e un Britannico (e uno Statunitense), che pure non appartengono alla stessa comunità.... Peraltro, la stessa comunità dei Cinesi abitanti in Cina non si capiscono verbalmente a distanza di qualche centinaio di chilometri, poiché le differenze tra il cinese mandarino (parlato dai letterati e nella capitale) e il cinese di Canton sono tali che il mandarino smette di essere perspicuo per un cantonese (e questo, nonostante un forte centralismo politico ed una ideologia massificante all'opera da decenni!!!). Forse che un Cantonese ed un Pechinese non hanno gli stessi governanti, lo stesso simbolo-bandiera, lo stesso ordinamento, la stessa moneta, la stessa storia, gli stessi usi, costumi e mentalità e forse che non abitano più vicini fra loro di un Inglese ed un Australiano? E allora, che significa affermare che la lingua è "un sistema o codice comune a tutti quelli che fanno parte di una data comunità"? In che senso va intesa, per esempio, tale "comunità"?.... (creato originariamente il 20.1.2004, h. 11.16, modificato oggi).

domenica 23 novembre 2008

Le conoscenze implicate nel Metodo Helix 4

La metodologia di cui si discute in questo sito parte non solo da considerazioni psicopedagogiche o neurologiche, ma anche da riflessioni di tipo linguistico. E questo, proprio perché siamo convinti assertori della necessità di essere degli insegnanti NON TANTO DI MADRELINGUA (si rilegga il post del 7 e 9 agosto 2008), QUANTO DOTATI DELLA DOPPIA COMPETENZA: "grammaticale" (nel senso più ampio di "competenza delle lingue in questione: quella dell'allievo e quella che l'allievo vuole apprendere") e "neuropsicologica". Riguardo alla competenza "grammaticale" e cioè linguistica, il nostro metodo utilizza il tesoro già accumulato da varie ricerche sul linguaggio umano e lo arricchisce con i contributi delle proprie analisi e dei propri studi. Infatti, il fenomeno della comunicazione umana - anche in una sola lingua, nella propria lingua materna - è qualcosa di quotidiano, ma non di banale. Di costante, ma non di semplice. E - strano ma vero - non sappiamo definire ancora il linguaggio. Usiamo ogni giorno qualcosa che non conosciamo. Siamo, cioè, avvolti in un mistero, che si lascia docilmente plasmare, ma non conoscere. Intrigante, vero?... (creato originariamente il 13.1.2004, h. 10.48, e modificato oggi)

giovedì 20 novembre 2008

Ancora sui blocchi emotivi (di Pierino...)

... Pierino inizierà lo studio del latino a partire NON dal latino ecclesiastico, ma - dopo averlo conosciuto meglio con un colloquio preliminare - a partire da barzellette, enigmi e giochi di parole di cui va matto. Questo sarà un latino che non gli ricorda affatto il motivo per cui è costretto ad apprenderlo, né l'ambiente di lavoro in cui dovrà esercitarlo e che gli è ostico. Naturalmente, dopo le prime tot lezioni si potrà anche stufare di battute e quindi potrà passare al latino psicologico, inerente cioè tematiche di psicologia a cui egli è pure appassionato. Quando si sarà familiarizzato con la lingua e avrà smesso di temerla o trovarla noiosa si proseguirà il corso slittando al corso in versione ecclesiastica, che gli servirà per il lavoro e che è stata la ragione prima che lo spinse ad iniziare lo studio del latino. La cosa interessante è che si procede sempre in avanti. In altre parole, passando ad una nuova ambientazione non si torna ad imparare, che so, l'uso dei casi od altre nozioni base della lingua. Ciò è possibile perché ogni lingua ha corsi specifici per linguaggi settoriali/gerghi che sono completi e, al tempo stesso, suddivisi o spezzettati in "blocchi" di tot lezioni. E percio', come dicevamo sopra, Pierino può intraprendere lo studio del latino, usando la serie "Nugae" (=barzellette, facezie, divertimenti) blocco 1 (ossia quello iniziale). Dopo tot lezioni del blocco 1 della serie "Nugae", lo prosegue usando il corso di latino, ma della serie "Psychologia" (=di tipo psicologico, appunto), blocco 2 ed arriva - dopo altre tot lezioni del blocco 2 della serie "Psychologia" - al latino della serie "Ecclesia" (=di tipo ecclesiastico), blocco 3. Come si può notare, le uniche due cose graduali, progressive o che devono seguire un'uniformità ed un ordine sono la lingua (dev'essere sempre la stessa, ovviamente) e i vari blocchi: dal primo ai successivi. Questa modularità e interscambiabilità dei vari approcci linguistici per ogni singola lingua è un'altra innovazione ed un altro punto di forza del sistema. O no?... (creato originariamente il 12.1.2004, h. 9.50, e modificato oggi)

domenica 9 novembre 2008

Scavalcare i blocchi emotivi

... E allora si può insegnare la lingua straniera a partire dal linguaggio settoriale di cose piacevoli per l'allievo, aumentando così la sua prontezza e la sua "sensibilità" al corso scelto. Si allude, per esempio, al linguaggio dello "hobby", dello "sport" preferito e via dicendo. Infatti, il metodo che sta per essere divulgato ha una peculiarità che lo rende estremamente flessibile e personalizzabile. Ecco in che senso. In media, ogni tot lezioni si arriva a padroneggiare le stesse strutture grammaticali e sintattiche di ogni lingua, al di là del linguaggio settoriale (o gergo) selezionato dall'allievo (e utilizzato nel corso). Questo fa sì che l'allievo possa passare ogni tot lezioni ad un nuovo linguaggio che gli veicola l'apprendimento della stessa lingua e quindi abbia la facoltà di cambiare "ambiente" (o "ambientazione") per il proprio studio. Per fare un esempio pratico, poniamo il caso che Pierino odi il latino, ma lo debba imparare e lo debba imparare per lavorare come traduttore di testi ufficiali della Chiesa. Peccato che - a peggiorare le cose dal punto di vista psicologico - Pierino sia un ateo convinto, ma ... deve tirare a campare e o prende questo lavoro o resta col becco asciutto. Bene, con il metodo cui ci riferiamo Pierino... (creato originariamente il 30.12.2003 h. 19; modificato oggi)

La contaminazione emotiva: bene o male?...

La controindicazione risiede nelle eventuali associazioni negative di tipo emotivo già instauratesi nell'allievo riguardo alla propria esperienza occupazionale o di gruppo d'appartenenza. Infatti, è ovvio che se "Pierino" non ne può più del suo lavoro in banca e per imparare il "latino" iniziasse proprio dal linguaggio settoriale bancario, egli trasferirebbe involontariamente il senso di peso, fastidio e rigetto che prova nella propria attività sul corso linguistico che, per la sua settorialità, gliela ricorda di continuo. Avverrebbe insomma ciò che dal metodo in questione viene denominato come "contaminazione emotiva". Essa viene utilizzata per incrementare l'attenzione e l'interesse per la lingua, ma è un'arma a doppio taglio che può funzionare anche nella direzione opposta.... E allora?... (creato originariamente il 27.12.2003 h. 8.35)

Due buoni motivi per corsi di/in gergo e linguaggi settoriali

Alcuni si possono domandare perché mai si dovrebbe ideare dei corsi linguistici a partire dai linguaggi settoriali o dai gerghi. La risposta più semplice e diretta è che, in tal modo, si attiva maggiormente l'attenzione nei confronti della lingua studiata perché essa viene sin da subito presentata come utile per esprimere cose legate al proprio mondo concreto, sia sociologico (per il gergo), che lavorativo (per il linguaggio specialistico). Inoltre, può accadere che - nell'esercizio della propria professione o durante la frequentazione del proprio gruppo - venga spontaneo ripensare a costrutti grammaticali e a parole, sentite ed insegnate nel corso delle lezioni, che vengono ritrovati o utilizzati nella/dalla professione/gruppo. In pratica, si pongono le basi perché nella mente dell'allievo avvengano spontaneamente dei ripassi - sporadici, ma numerosi e senza fatica - della materia presentata, ogni volta che egli si trovi a che fare con ciò che fa parte della sua vita e che incontra spesso anche al di fuori della lezione. Si stimola, insomma, una sorta di ripetizione per associazione di idee, basata sulle esperienze concrete del proprio ambito/mondo. In tal modo, il proprio lavoro, la propria attività e quant'altro diventa richiamo costante a ciò che si è appreso, consolidandone il rinforzo mnemonico. C'è ovviamente una controindicazione a questo metodo (già progettato e di cui è in corso di stampa il testo base o fondante). La vedremo prossimamente.... (creato originariamente il 26.12.2003 h. 16.52)

Il linguaggio settoriale

Il linguaggio "settoriale" o "specialistico" sorge con lo scopo di utilizzare in un modo quasi "matematico" la lingua, nel senso che ad ogni parola o espressione codificata corrisponde un significato solo, ben preciso. Nasce, quindi, con l'intento di abbattere al massimo la quota di ambiguità insita in ogni lingua. Per esempio, "storia" - a seconda dei contesti - può significare "registrazione o resoconto di fatti realmente accaduti" (come accade nella frase: "Spiegami la storia dell'Impero Romano"), oppure al contrario "racconto fantasioso di fatti non accaduti realmente/menzogna" (come nella frase: "Dopo qualche anno, venni a scoprire che quello che mi aveva raccontato era solo una storia"). Nel linguaggio specialistico o settoriale è più difficile incorrere in ambiguità del genere poiché spesso si creano parole nuove, apposite, per indicare sistemi, idee, processi, strumenti (od altro) che sono tipici di quel dato ambito del sapere, senza possibilità di equivoco. E così abbiamo in medicina i termini "ptosi", "atresia", "perineo", "psoas", "encefalo", ecc. che indicano o parti specifiche del corpo o sue condizioni, suoi processi e sistemi - normali o patologici. Ci può anche essere un uso "specialistico" di termini comuni, come accade con la banalissima parola "albero", che nel linguaggio settoriale della marineria indica una certa parte di certe navi. In qualche modo, anche il linguaggio settoriale può avere delle somiglianze col gergo, nel senso che può diventare un "linguaggio-barriera" che facilita la comunicazione tra persone di una stessa cerchia o ambito, mentre la rende impossibile a chi vi è estraneo. Ma la somiglianza termina qui ed è un po' superficiale. Infatti, a riguardo del linguaggio settoriale la cerchia o ambito è più di tipo intellettuale o lavorativo e solo in subordine di tipo sociologico, mentre nel "gergo" è solitamente vero l'opposto. D'altronde, chi non fa o non conosce una certa arte o mestiere non ha bisogno di usare o di conoscere, per esempio, il "bolino" e, quindi, non ha neppure il bisogno di "chiamarlo", di "indicarlo verbalmente" ovvero "nominarlo". Intendo dire che il linguaggio settoriale, di per sé, non nasce per distinguersi o "nascondere/nascondersi", bensì per le oggettive necessità tipiche di una pratica (lavori, arti o mestieri) e/o di una teoria (studi, speculazioni intellettuali, ricerca, ecc.). Tanto è vero che, invece, la maggior parte delle espressioni gergali riguardano azioni comuni, non legate a speciali o specifici mestieri/lavori, né a particolari ambiti di conoscenza o ricerca. Insomma, nel "gergo" puoi trovare la "traduzione" o "versione" di un'azione generica come il "far scorrere/ammazzare il tempo" (cfr. "cazzeggiare"), come pure di uno stato d'animo quale la "noia" o "fastidio" (cfr. "scazzo"). Anche al proposito del linguaggio settoriale ci si può lasciare sollecitare dal dubbio già presentato a proposito del gergo: perché non ideare un corso di lingue che parta non dal linguaggio generalista, ma dal linguaggio settoriale di cui si serve abitualmente l'allievo (ammesso che si trovi in una situazione del genere ed usi già un linguaggio settoriale nella propria lingua madre, legato ai suoi studi e/o alla sua occupazione)?.... (creato il 25.12.2003 h. 17.11)

Una delle prime intuizioni glottodidattiche

Il "gergo" è un linguaggio tipico e proprio di un certo gruppo piuttosto chiuso, che desidera mantenere la propria differenza e distanza rispetto a chi non ne fa parte. Il gergo, quindi, nasce per capirsi rapidamente tra persone che condividono un certo stile di vita e/o certe conoscenze ed inoltre per evitare di essere capiti da chi non faccia parte della stessa cerchia. Abbiamo, così, il gergo dei ragazzi - spesso incomprensibile agli adulti - e addirittura il gergo di alcune "bande" di ragazzi che può risultare di difficile comprensione anche alla generalità dei ragazzi stessi che, però, non appartengano alla stessa "banda". Esiste anche il gergo di sette, religioni in stato di persecuzione (i primi cristiani, per parlare di Cristo parlavano del "Pesce", per un motivo che spiegherò se qualcuno me lo chiedera'), ecc.. Il punto è: perché non ideare un corso di lingue che parta non dal linguaggio generalista, ma dal gergo di cui si serve abitualmente l'allievo (ammesso che si trovi in una situazione del genere ed usi già un gergo nella propria lingua madre)?.... (creato il 23.12.2003 h. 18.50)

Imparare un alfabeto "alieno"

Bisogna verificare se tra l'alfabeto della lingua già parlata dall'allievo (L1) e quella nuova (L2) ci sia una corrispondenza univoca. Per esempio, alla "A" italiana corrisponde il segno dell'alfa in greco e così via per tutte le altre lettere italiane: in questo caso, siamo davanti a due lingue ed alfabeti diverse che però mostrano una corrispondenza univoca. Invece, lingue come l'arabo - rispetto all'italiano - hanno un funzionamento più complesso: ad ogni lettera italiana corrispondono 4 forme grafiche, 4 lettere. Perché? Perché le prime forme di ciascuna lettera dell'alfabeto si usano solo quando esse si trovano isolate e cioè non in parole di 2 o più lettere (come quando si usano le lettere per indicizzare una lista di contenuti - a)..., b)..., c)... - o come i titoli delle sezioni dedicate alle parole che iniziano con le diverse lettere nei dizionari), le seconde forme di ogni lettera si usano quando esse si trovano all'inizio della parola, le terze forme si usano quando la lettera è all'interno della parola e le quarte forme di ogni lettera si usano quando la lettera è in fondo alla parola e la "conclude". Nell'arabo, quindi, abbiamo 4 alfabeti: uno di lettere isolate, l'altro di lettere iniziali, l'altro di mediali e l'ultimo di finali. Vediamo come imparare rapidamente il primo tipo di alfabeti "alieni": quelli a corrispondenza univoca.

giovedì 6 novembre 2008

Alfabeti "alieni"...

Ci sono lingue in cui la necessità di imparare una pronuncia diversa (regole e suoni) si accompagna ad un'ulteriore difficoltà: quella di imparare una scrittura diversa. La scrittura può tendere ad essere: 1. alfabetica (avente un "set" di caratteri, numericamente limitato ed usato in maniera combinatoria per scrivere tutte le parole di quella lingua) e contemporaneamente fonetica (ove ad ogni carattere o gruppo di caratteri corrisponde un suono) e 2. ideografica (è il cinese, ove i caratteri non costituiscono un "set" limitato che si usa per comporre le diverse parole, ma ogni carattere indica già una parola completa la cui pronuncia dev'essere nota al lettore, come pure la sua forma grafica, per riconoscerla). Di scritture ideografiche ce n'è solo una e per ora escludiamo tale tipo di scrittura. Fra quelle di tipo 1. ci sono: 1.a) lingue con scritture diverse in modo non "drammatico" dalla lingua dell'allievo o L1 (il greco per allievi italiani, p. es.) e 1.b) lingue con scritture totalmente diverse (per un europeo può essere l'arabo). In realtà, chiunque studi una L2 è bene che impari pure l'Alfabeto Fonetico Internazionale (A.F.I.) che è un sistema di scrittura artificiale, totalmente di tipo 1.. Ciò, per avere la possibilità di conoscere la pronuncia esatta di ogni parola di L2, anche di quella mai sentita prima (quasi tutti i dizionari usano mettere la trascrizione A.F.I. vicino ad ogni parola). Quindi, eccoci alla questione: come imparare la pronuncia di una lingua diversa che, in più, utilizza un alfabeto diverso?