lunedì 25 agosto 2008

"Impari e guadagni"

Intendo per stratagemma promotivazionale un comportamento stabilito che aiuti la continuità nell'applicazione allo studio. Quello di oggi intercetta l'aspetto economico dello studente e si chiama "Impari e guadagni". A partire dalla metà del corso, il pagamento della lezione cambia regole: I. ad ogni lezione seguita nel giorno prefissato (non in altro, se l'altro è successivo a quello giusto di 3 giorni o più) l'allievo riceve un gettone o un timbro su una tessera apposita del valore di 1 euro; II. nei tempi scelti dall'allievo, l'importo maturato può essere convertito in: a) uno sconto sul costo delle lezioni o degli strumenti didattici, oppure b) un premio che l'allievo può ugualmente scegliere a sua discrezione. I premi devono essere "interessanti" per il tipo di studenti che frequentano: dalle chiavette USB o dai CD o DVD vergini ai cellulari, alle macchine fotografiche (anche usa-e-getta), ecc.. Perché introdurre questo stratagemma promotivazionale solo nella seconda metà del corso? Perché per molti è verso la fine che la stanchezza inizia a farsi sentire di più. Quindi, è opportuno un cambiamento che porti "aria fresca" nella gestione dello studio. Perché si viene penalizzati (nel senso che non si attua questo stratagemma) a partire dal terzo giorno di ritardo? Perché i tempi di studio sono (o dovrebbero essere) programmati in base al funzionamento della memoria. Secondo gli studi di Tony Buzan, la memoria ha bisogno di essere "rinfrescata" anche ogni 3 giorni circa. Se, invece, tale intervallo si dilata fino a 6 o 7 giorni si rischia di perdere l'efficacia del metodo glottodidattico seguito.

domenica 24 agosto 2008

Quanto tempo occorre per arrivare a parlare bene una lingua?

Abbandoniamo per un istante il tema della continuità nello studio e, quindi, della motivazione. La questione del tempo dedicato allo studio di una lingua straniera, credo vada suddiviso in tre questioni separate e relative al: 1) tempo di esposizione (periodo in cui passivamente si ascolta la lingua straniera che si desidera interiorizzare), al 2) tempo di produzione (in cui attivamente si creano frasi nella nuova lingua) e al 3) tempo della teoria (in cui si analizzano e si confrontano le strutture nuove con quelle della propria lingua madre). In un dialogo si ha una fisiologica alternanza dei primi due tipi e nulla o quasi del terzo (non c'è tempo per analizzare e confrontare: bisogna capire e rispondere...). E' utile dialogare per migliorare la propria conoscenza della lingua straniera? Penso poco. Nel senso che, quando si ha a che fare con un altro essere umano - pur di intendersi - si ricorre inconsciamente ad una serie di scorciatoie e stratagemmi (come: sguardi, gesti, mimica varia...) che ci consentono di continuare il rapporto, quando non si ricorda/conosce la parola/espressione/forma più giusta. Il dialogo, quindi, aiuta le capacità COMUNICATIVE ed INTERPERSONALI (senz'altro importanti...), ma non stimola PIU' DI QUEL TANTO la percezione/comprensione, per esempio, delle sottili sfumature che ogni lingua possiede. Non stimola neppure la nostra capacità di dire ESATTAMENTE quello che volevamo dire nella nuova lingua. Tipici test di questi deficit risultano essere: a) il saper chiedere le cose senza "suonare" esigente e maleducato, b) il saper raccontare le barzellette in modo che lo straniero rida di vero cuore, ecc.. In genere, il rivolgersi appropriatamente a persone non coetanee e non amiche (neutre), senza offenderle o fare gaffes (o riuscire a ferire l'altro e a fare davvero delle gaffes, perché lo volevamo fare) è una buon "test" generale. In effetti, la presenza di questi due importanti deficit non ci permetteranno di affermare, per esempio: "Padroneggio l'inglese" (e tanto meno: "Parlo l'inglese come un madrelingua").

martedì 12 agosto 2008

Gerarchie personali di valori ed interessi

Come si trasforma un ragazzo in soldato? Beh, prima di tutto, il ragazzo deve presentare già un orientamento per la vita militare. Ma, a parte ciò, quello che fanno tutte le accademie militari è: 1. ripetergli che, al presente, non è un soldato, 2. ripetergli che lo diventerà. Così, si ribadisce la meta, marcando la distanza fra ciò che egli sente di essere e ciò che deve diventare, creando così la motivazione: la carica o spinta emotiva che, come abbiamo visto, nasce appunto dal divario fra la percezione della situazione attuale ed una certa situazione futura. Ma c'è una condizione che può impedirgli di trasformarsi in un vero soldato: non avere interessi radicati, rispetto ai quali gli sia possibile percepire il suo diventare soldato come una realizzazione degli stessi. Se non ha degli interessi intimi che siano omogenei o compatibili rispetto all'essere un soldato, (ognuno può avere i suoi: soldi, prestigio sociale, agevolazioni di vario tipo, protezione degli indifesi e dei "buoni", amor di patria,...), la vita di caserma risulterà ben poco sopportabile. Ecco, allora, la terza cosa che le accademie ripetono durante gli addestramenti: "La vostra opera è utile al Paese" e, in più, si fa in modo che, per i militari, ci siano effettivamente stipendi allettanti ed una maggior considerazione (ed agevolazione...) di vario tipo da parte dello Stato. Questo variegato "mucchio" di incentivi stimolerà ogni ragazzo nel modo che gli sarà più congeniale: verranno rispecchiati, "intercettati" tutti gli interessi che può avere dentro di sé un giovane candidato alla carriera militare. Sia l'assetato di denaro che l'assetato di potere, che l'idealista di stile "protettivo" o "patriottico" percepiranno un collegamento "interessante", "significativo" fra la vita militare e la realizzazione o il soddisfacimento dei propri desideri personali. L'essere umano è una specie di "macchina del significato". Non solo perché si chiede sempre il senso delle cose, il loro perché, ma anche perché agisce solo se ha una ragione, percepita come valida. Questo esame del processo di formazione militare serve a sottolineare una parte importantissima dell'analisi motivazionale che deve precedere ogni attività umana, studio incluso. Infatti, per "costruire" motivazioni davvero efficaci sull'allievo, è essenziale rendersi conto di quegli interessi ed ideali a cui tale allievo assegna un valore determinante. E ciò, per poi inventare una presentazione del suo studio linguistico che riesca ad "agganciarsi", ad "intercettare" proprio tali interessi. Così, si provocherà un "ancoraggio", una fruttuosa "contaminazione emotiva" fra realtà già molto importanti per lui e il nuovo impegno aggiunto dell'apprendimento linguistico.

Attenzione all'idoneità delle motivazioni

All'inizio dell'articolo precedente, si è osservato che la motivazione è una spinta emotiva che, se idonea, facilita ogni attività umana. Cosa significa l'inciso "se idonea"? Il fatto è che non ogni motivazione facilita ogni attività umana. Esempio: il mio principale mi ricatta: "O lei impara l'inglese o dovrò cercare un altro che svolga il suo lavoro". Allora, mi iscrivo ad un corso di inglese. Secondo voi, quante possibilità avrò di riuscire a seguirlo con successo? E' evidente che la motivazione che nasca in un contesto percepito come umiliante raramente produrrà i risultati attesi. Anzi: senza sapermi spiegare il perché, è possibile che, durante le lezioni, io mi ritrovi ad essere più lento, distratto e confuso di quanto sia in qualsiasi altra attività, come se tentassi un autosabotaggio inconsapevole, forse per difendere o ribadire la mia dignità. No, non tutte le motivazioni sono idonee a facilitare ogni attività. Ecco, quindi, la necessità della "famosa" analisi motivazionale. Lo scopo finale di tale analisi è correggere le motivazioni dell'allievo per aiutarlo a raggiungere l'obbiettivo prefissatosi, attraverso: 1. l'eliminazione di quelle inadatte e 2. la sostituzione con altre che siano più idonee allo scopo (ed accuratamente personalizzate, affinché l'allievo le senta come proprie).

Cos'è la motivazione? Alcune sue caratteristiche

Anzitutto: cos'è la motivazione in senso psicologico? E' una spinta o carica emotiva che, se idonea, facilita ogni attività umana (e che, quindi, va studiata quando si parla di apprendimento, visto che ogni apprendimento corre il rischio di risultare faticoso). La motivazione nasce sempre dalla distanza fra ciò che si crede di essere e ciò che si vuole diventare. Attenzione: non fra ciò che si è oggettivamente, bensì fra ciò che si crede di essere e ciò che si vuole diventare: l'oggettività c'entra piuttosto poco nelle dinamiche psicologiche... Se Mario ha 10 milioni di euro e ciò gli basta soggettivamente per sentirsi già ricco, non cercherà di arricchirsi ulteriormente in tutti i modi (fra l'altro, consideriamo che parecchi si sentirebbero già soddisfatti con molto meno...). Ma se Giovanni, che ha 25 milioni di euro, si è fissato di doverne avere 50, allora si sentirà ansiosamente in perdita e ancora insoddisfatto. Egli cercherà di arricchirsi in tutti i modi fino alla cifra - per lui "magica" e ossessionante - di 50 milioni di euro. Quindi, è più importante ciò che si crede di essere o ciò di cui si crede di aver bisogno, di ciò che si è o si ha effettivamente. L'energia psichica della motivazione si trae da quel che si percepisce, reale o immaginario che sia. Facciamo un altro esempio. Se alcune mie amiche - per farmi un brutto scherzo - iniziano a trattarmi con indifferenza e riescono a convincermi di non essere bravo nella relazione con l'altro sesso, cercherò in tutti i modi di acquisire tale capacità (che magari avevo già...), perdendo inutilmente un sacco di energie e, forse, di denaro. Avevo bisogno di tutti quei libri sulla psicologia femminile, di quella consulenza dallo psicologo, di quel corso di seduzione? No. Allora, perché l'ho fatto? Perché pensavo, credevo, ero convinto io di averne bisogno. La pubblicità funziona utilizzando proprio queste dinamiche: viene insinuato il bisogno artificiale di qualcosa di cui si aveva sempre fatto a meno tranquillamente. In altre parole, si spinge il consumatore a credere di aver bisogno di qualcosa, ben sapendo che le azioni si sviluppano sempre dalle convinzioni.

Importanza della motivazione per il rendimento e la continuità

Oltre ad un insegnante provvisto della conoscenza riflessa della nuova lingua, l'allievo adulto ha bisogno di un sistema che metta a fuoco la sua situazione motivazionale. Cosa significa? Significa che bisogna esaminare attentamente se nell'alunno si annidino - anche a sua insaputa - dei blocchi od ostacoli all'apprendimento, dovuti ad un'incapacità a "caricarsi" e a motivare il proprio impegno. Spesso si rende meno di quello che si potrebbe a causa delle errate o insufficienti motivazioni e ciò si ripercuote negativamente su tutto lo studio, peggiorando ulteriormente il rendimento già difettoso. Si immagini di iniziare pieni di entusiasmo lo studio dell'inglese. Dopo un mese, però, si nota che si fanno pochi progressi apprezzabili (si continua, per esempio, a non capire nulla di una e-mail, di un articolo di giornale e/o di una canzone del nostro autore straniero preferito). Si inizia, così, a percepire il corso di inglese come qualcosa di teorico, di staccato dal concreto, di poco efficace. Cresce solo la percezione della "routine" e della noia ("Ogni martedì e giovedì DEVO/MI TOCCA andare al corso"...) o quantomeno dell'impegno e della fatica (senz'altro presenti e necessari in ogni studio serio), senza che aumenti contemporaneamente l'interessamento e il piacere per la materia e il corso. Con una metafora sentimentale, potremmo dire che il "fidanzamento" appassionato con la materia si è concluso e si è scaduti nella "crisi del settimo anno"... Invece, è importante preoccuparsi di accrescere interessamento e piacere, perché ciò diminuisce la percezione della fatica. In altri termini, la loro intensificazione è fondamentale, perché funge da "anestetico" nei confronti degli aspetti "logoranti" dell'apprendimento, sempre presenti e con cui, realisticamente, bisogna fare i conti. Come si può intuire, l'aver riscontrato pochi risultati dopo un certo lasso di tempo demotiva ulteriormente l'alunno e, perciò, peggiora sempre più la sua capacità di apprendimento. Ora, l'inizio di questa "caduta libera" risiede anche nel mancato superamento degli ostacoli psicologici presenti nell'alunno. E tra questi ostacoli, sono da considerare le motivazioni insufficienti o erronee, che non gli hanno assicurato né tutto il rendimento possibile, né la continuità. Ecco perché, all'inizio di ogni studio, ci sembra essenziale esaminare il "quadro" motivazionale dell'alunno. Ma questo cosa significa in concreto?...

sabato 9 agosto 2008

Ancora sulla conoscenza riflessa

Per insegnare una lingua, occorre conoscere la lingua in oggetto: e' naturale. Ma non e' banale precisare in che modo essa vada conosciuta, visto l'aneddoto del messaggio precedente.... Si parlava anche di una conoscenza "riflessa" e distaccata. Con cio', si intendeva dire che il vero insegnante deve essere consapevole dei "meccanismi" e delle "strutture" all'opera nella lingua che vuole insegnare. La semplice conoscenza "istintiva" ed "automatizzata" va bene solo per gli umani in eta' prepuberale, ai quali basta la semplice esposizione ad un dato idioma per apprenderlo in modo "naturale" (modificato dall'originale del 18.12.2003, h. 16.39)

giovedì 7 agosto 2008

Necessità della conoscenza riflessa delle lingue

... ma che la conosca in modo "riflesso", meno coinvolto e quindi piu' distaccato. Perche'? Lo faccio capire con un aneddoto. Un mio amico si iscrisse ad un corso di svedese, che (ovviamente...) sottolineava il fatto di avere insegnanti madrelingua. Il mio amico ci andava regolarmente al corso, anche perche' l'insegnante era una svedese e pure ... "buona". Questa sua bellezza, pero', era anzitutto un elemento di distrazione e non di facilitazione nei confronti dei processi di apprendimento. Ma l'altro aspetto negativo - ben piu' importante e meno discutibile - era che la gentile signorina sapeva perfettamente la propria lingua, ma 1) non sapeva l'italiano, 2) non si rendeva conto di come trasformava la propria lingua. Intendo dire che lei - come tutti quelli che conoscono perfettamente la propria lingua tanto da averla "automatizzata" - non sapeva spiegare (peraltro ignorava l'italiano...) perche' una stessa parola della sua lingua venisse ogni tanto modificata (per dare l'idea, faccio due esempi col tedesco, simile allo svedese (e a me più congeniale...): "Auto" puo' diventare "Autos", "Mann" "Maenner", ma anche "Maennern", ecc.) (creato originariamente il 17.12.2003, h. 16.09; modificato e ripubblicato oggi).

mercoledì 6 agosto 2008

Quale insegnante per quale allievo?....

Per insegnare una lingua bisogna sicuramente conoscere la lingua in oggetto. Ma - attenzione! - anche un ragazzo di 16 anni conosce la propria lingua ad un livello sufficientemente complesso e, al tempo stesso, "automatizzato". Non per questo, pero', potrebbe insegnare efficientemente (e cioe' rapidamente) ed efficacemente (e cioe' in modo da essere capita bene e ricordata a lungo) la propria lingua ad un adulto che la volesse apprendere. Invece, la potrebbe insegnare benissimo ad un bambino (ed anche - o soprattutto - senza incontri o lezioni a cio' predisposti), come d'altronde fanno anche i genitori con i propri figli in modo spontaneo, sia che abbiano una preparazione linguistica sia che non siano insegnanti di professione. Questo ci fa capire gia' una prima, grande cosa, in contrasto a ciò che verrebbe da dedurre di primo acchito (e a ciò che pensano molti allievi): buona parte dei frutti di un insegnamento linguistico risiede non solo nell'insegnante, ma anche nell'allievo stesso. In particolare, l'allievo - ogni allievo della specie umana - mostra nei confronti del linguaggio una capacita' di apprendimento naturale piu' marcata fino all'inizio della puberta'. Dopo poco, tale predisposizione o sensibilita' linguistica cala rapidamente. E cosi', lo stesso bambino che aveva imparato perfettamente e senza sforzo la propria lingua madre - magari difficilissima (ma secondo chi?...) come il cinese -, intorno ai 15 anni diventa incapace di imparare un'altra lingua in modo altrettanto naturale e per semplice contatto ed esposizione. Intorno ai 15 anni (o anche prima) e' piu' opportuno affidarsi a qualcuno che non solo sappia usare bene la lingua da apprendere (magari perche' madrelingua), ma che .... (creato il 16.12.2003, h. 10.23; modificato e ripubblicato oggi)

martedì 5 agosto 2008

Il dilemma superato

Per rendere meno pesante la ... maledizione della torre di Babele, bisogna verificare la soluzione al dilemma del latino e di Pierino, che vuole imparare il latino: chi dei due va conosciuto meglio? Se si risponde - come in antico -: "Il latino!" si apparterra' alla categoria dei "grammatici". Se si risponde - come si fa piu' recentemente -: "Pierino!" si apparterra' ai "neuropsicologi". La realta' e' che e' sbagliato porre il dilemma ed obbligarsi ad un'alternativa. La risposta corretta al dilemma e' infrangere il dilemma stesso. Quindi, non "aut/aut", ma "et/et": bisogna essere sia "grammatici" che "neuropsicologi". Pare esagerato?... (originario del 15.12 .2003, h. 10.06; modificato il 9/11/2009)

lunedì 4 agosto 2008

Uno dei dilemmi di chi insegna

Mi viene in mente un vecchio dilemma, a proposito delle lingue e del loro apprendimento: "Per insegnare bene il latino a Pierino, devo conoscere meglio il latino o Pierino?" Molti di noi hanno un corso (o anche piu') di qualche lingua estera (tipicamente di inglese). Da qualche parte (dispensa, garage, cantina?...), impolverato. E' probabile che, nonostante quel corso fosse ben reclamizzato come "modernissimo", "scientifico", "naturale e senza sforzo", "capace di insegnarvi a pensare direttamente nella lingua straniera", ecc., nessuno di noi riesca tuttora a capire un'acca di quello che viene detto nella nostra canzone preferita, se e' in quella lingua, o di quello che sentiamo dire da due tizi madrelingua. E cio', anche se il corso fosse stato letto integralmente. Ma spesso, a dispetto di tutta la "scientifica gradualita'" con cui esso sarebbe stato composto, si deve ammettere che non si è neppure terminata la lettura del detto corso in tutta la sua interezza. Perche'? Forse perche' esso non offriva un corretto equilibrio fra l'attenzione che si deve riservare al ... latino (e a qualsiasi altra lingua) e l'attenzione dovuta a ... Pierino (e cioe' a chiunque voglia conoscere altri idiomi: a me, a te, ...). Per oggi, basta. Ci rileggeremo prossimamente.... Nel frattempo, perche' non scrivere una vostra opinione sulle vostre esperienze (piu' o meno frustranti) a contatto con una lingua straniera? Penso a chi, per entrare nel mondo del lavoro, deve sostenere un colloquio in altra lingua o anche a quegli studenti universitari che scelgono indirizzi non linguistici e che si trovano, pero', a dover superare un esame di tale genere per poter raggiungere l'agognata meta della laurea. A presto! (originario del 14.12 .2003, h. 18.08)